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Adora più presto un bel putto, che domenedio

Il processo a un libertino omosessuale: Francesco Calcagno (1550)

di Giovanni Dall'Orto

Da: "Sodoma" n. 5, primavera-estate 1993, pp. 43-55.

NOTE

1) Archivio di Stato di Venezia (ASV), "Santo Uffizio", Processi, "busta" 8, "pezza" 28; sentenza nella "pezza" 29.
Quella che ho consultato è la copia notarile del processo originale (che è probabilmente conservato a Brescia, forse assieme ad ulteriore materiale a me ignoto) mandata dall'Inquisizione di quella città, allora sotto il dominio di Venezia, all'Inquisizione della capitale.

2) ASV, "Consiglio dei Dieci", Miste, reg. 7, in data 10 sett. 1550.
Va notato inoltre che sulla copia del verbale utilizzato dall' Inquisizione sono sottolineati (come accade di solito per i testimoni da convocare e i coimputati da cercare) parecchi nomi. Una ricerca presso l'Archivio di Stato di Brescia potrebbe riservare perciò interessanti scoperte su questa cerchia di libertini.

3) ASV, "Consiglio dei Dieci", Miste, busta 11, 102.

4) Anche Giovanni Treccani degli Alfieri nella sua Storia di Brescia (Morcelliana, Brescia 1963, vol. 2) cita il caso di Francesco Calcagno affermando (p. 515, nota 9) che "fra i seguaci delle sette riformatrici era (...) un prete Calcagnino, bruciato a Brescia nel 1550".
Del resto all'archivio di Stato di Venezia la sentenza contro Calcagno si trova non nella "pezza" che lo riguarda, ma in quella del processo contro Gerolamo Allegretti da Spalato e Stefano Giusti da Cremona, processati entrambi per eresia luterana vera e propria (busta 8, pezza 29) e condannati all'abiura, a due anni di carcere, e a qualche anno di bando.

5) Viceversa Giorgio Spini, nel suo Ritratto del protestante come libertino (in: Tullio Gregory et all., Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 177-188) ha documentato l'attribuzione (da parte dei cattolici) dei tratti del libertino ai protestanti.
L'ostentata indifferenza con cui le fonti cattoliche confondono "libertinismo" e "protestantesimo" è indice della deliberata non-volontà di prendere in considerazione i tratti specifici degli avversari, a cui vengono attribuiti a forza lineamenti prefabbricati, e quindi perfettamente intercambiabili. Ciò dovrebbe metterci in guardia contro l'immagine tradizionale del libertino, che spesso non contiene nulla di autentico.

6) Si tratta con ogni probabilità della Cazzarìa di Antonio Vignali de' Buonagiounti, composta nel 1525/1526, pubblicata fra il 1530 e il 1540. È stata riedita dalle Edizioni dell'elefante, Roma 1984.

7) O forse - meno probabilmente - "notaio e cittadino"? (il manoscritto ha: Not.s civis).
Oppure potrebbe trattarsi del componente di una categoria di cittadini analoga a quella dei cittadini originari di Venezia: non nobili, ma non privi di diritti politici. Purtroppo non sono riuscito a verificare se tale categoria esistesse a Brescia.

8) L'interrogatorio si concludeva di solito chiedendo se esistessero motivi di odio o inimicizia fra il testimone e l'imputato, nonché di identificare la persona di cui si era parlato.

9) Questa Caterina è la donna che ho definito più sopra come la più probabile istigatrice della denuncia, possedendo il "movente" di difendere suo figlio dalla relazione sessuale col Calcagno. Naturalmente la mia è semplicemente un'illazione.

10) È citazione dal Vangelo secondo Giovanni 13, 23-25: "uno dei discepoli, quello che Gesù amava (...) reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse..."

11) Un repentino cambio di atteggiamento, come quello a cui si assiste qui, segue di solito, in altri processi che ho consultato, all'uso della tortura.
Il fatto stesso che Calcagno risponda così "a tono", confermando parola per parola i termini del documento d'accusa, è un ulteriore indizio per questo sospetto.
Rigore storico vuole però che aggiunga che fra i documenti conservati a Venezia non esiste traccia di un verbale di tortura. Per verificare se esiste bisognerebbe fare ricerche presso l'archivio di stato di Brescia.

12) Tutte le lettere che seguono si trovano in: ASV, "Santo Offizio", busta 8, "pezza" 29.

13) Cfr. anche Giovanni Treccani degli Alfieri, Op. cit., vol. 2, p. 449: "Il prete Calcagnini, riferisce il Caravaggi, venne barbaramente giustiziato: gli venne strappata la lingua, dopo di che fu decapitato e bruciato".

Adora più presto un bel putto, che domenedio

Il processo a un libertino omosessuale:
Francesco Calcagno (1550)

Una cerchia libertina a Brescia

Le pagine che seguono sono state scritte per esemplificare con un caso concreto quanto ho discusso a livello solo teorico nelle pagine precedenti.

Fra i molti casi conservati dagli archivi italiani ho scelto quello di Francesco Calcagno, prete ventiduenne di Brescia condannato a morte per "luteranesimo" nel 1550. Ho scelto proprio Calcagno perché è un personaggio sorprendente, una sorta di "riassunto vivente" di idee libertine (1). Oltre ad essere omosessuale, questo va da sé.

Il suo processo inedito, pubblicato qui di seguito, offre uno squarcio prezioso sulle mentalità eterodosse esistenti in Italia sul nascere del fenomeno "libertino".

Prezioso perché Calcagno non è solo. Attorno a lui si muovono personaggi che esprimono opinioni non meno eterodosse delle sue. Lo denuncia lo stesso imputato, nel vano tentativo di mostrare che le sue affermazioni erano frutto di una specie di blasfema baraonda generale.

A ben guardare proprio torto non aveva, dato che l'archivio di Stato di Venezia, presso cui sono depositati gli atti del suo processo, conserva la condanna di almeno una delle persone che egli cita, "Ioannis Antonius Presellium" da Brescia. A costui il 10 settembre 1550 fu comminato un anno di prigione, oltre che sei anni di bando. Purtroppo sui documenti d'archivio non è specificata la ragione della condanna (la sentenza inizia con: "per quello che vi è stato letto e detto decidete se..."), ma il suo processo coincide cronologicamente con quello di Calcagno (2).

Da notare pure che un Andrea Ugoni da Brescia (che a giudicare dal cognome potrebbe anche essere parente del prete Nicolò Ugoni citato nel verbale) è processato nel 1552 per "luteranesimo" (3), un'etichetta sotto cui si spacciava volentieri il libertinismo (4).

È interessante osservare come l'atteggiamento libertino di Calcagno sia stato, per ragioni di propaganda, classificato e trattato come "luteranesimo", ma punito più severamente che quello dei due luterani autentici assieme ai quali fu processato.

Gli Inquisitori si erano resi conto del fatto che questo tipo di contestazione era ben più pericoloso dell'autentico luteranesimo. I luterani erano pur sempre cristiani appartenenti a una Chiesa "sbagliata", che potevano essere "salvati" obbligandoli ad entrare nella Chiesa "giusta". I libertini invece negavano la liceità di qualsiasi Chiesa (5).

Secondo lo stesso Calcagno, il suo amico Lauro Glisenti aveva affermato di "non credere in cosa alcuna, se non in quel che si vedeva" e che San Paolo ed altri santi condannavano la sodomia perché forse a loro piaceva più che agli altri e la volevano tenere per sé. Come se non bastasse Lauro aveva prestato a Calcagno una copia della Cazzarìa (6).

Ancora: il già citato Nicolò Ugone (un altro prete, che porta il cognome della nobile famiglia bresciana Ugoni), aveva detto che credeva tanto alla sacra scrittura quanto alle favole di Esopo. E Giovanni Antonio da Preseglie (lo stesso di cui si è già detto) aveva aggiunto "che il calice ed ostia consacrata erano ciance"...

Non basta. Quando la congrega è riunita ragiona "di cose lascive" a casa di Giovanni Antonio dalla Val Sabbia; inoltre nella bottega di Pietro delle Grazie "se ne è dette tante che non me ne ricordo espressamente".

Tutto questo avviene nonostante lo scandalo e gli scrupoli (autentici od ostentati?) di Giovita Ballino (un altro prete ancora, diciannovenne, oggetto delle attenzioni erotiche del Calcagno) che colmo di giovanile zelo lo accusa di essere "una bestia", nonché di Pietro delle Grazie che una volta, scandalizzato, minaccia una denunzia, ma poi non ne fa niente.

Non si sa fino a che punto questi scrupoli siano veri o simulati ad uso dell'Inquisitore per "rifarsi l'immagine". Senza dubbio la minaccia di una condanna era sempre ben presente ai nostri, come dimostrano i tentennamenti di Calcagno che secondo i testimoni a volte diceva di essere un ottimo cristiano, e a volte si faceva beffe in blocco del cristianesimo. E ciononostante aveva intenzione di rientrare in convento, e non rinunciava a celebrare messa!

Certo è però che Calcagno aveva chiesto spudoratamente a Pietro delle Grazie e Lauro Glisenti di procurargli qualche ragazzino, e che nessuno dei due l'aveva denunciato.

Certo è che per anni la blasfema congrega aveva coltivato le sue riunioni ora a casa dell'uno, ora dell'altro, senza che succedesse nulla.

Se la storia dell'omosessualità fosse solo la storia di un'incessante repressione, non si spiegherebbe la svergognata ostentazione di Francesco Calcagno, che anche ai giorni nostri sarebbe motivo di non poche grane.

Effettivamente una denuncia, alla fine, arrivò (forse, io ritengo, per bloccare i maneggi di Calcagno con un "puttino" (ragazzino) figlio della ex "massara" del denunciante). E si trattò certamente di un segno del nuovo clima portato dalla neonata Controriforma, dal concilio di Trento.

Toccò all'allegra brigata di Brescia (come a mille altri ignoti) constatare sulla propria pelle la fine di un'epoca. Un nuovo atteggiamento più bacchettone rendeva impossibile la spudorata sincerità del libertinismo delle origini, e necessario il "nicodemismo".

Conferma queste considerazioni la sentenza contro Calcagno, laddove specifica chiaramente di voler comminare pene "esemplari", che fungessero da monito per la cittadinanza.

Criteri di trascrizione

Data la lunghezza del documento qui trascritto, è opportuno non appesantire la lettura con una presentazione troppo dettagliata. Mi si permetta però di specificare i criteri di trascrizione che ho adottato, prima di passare al testo del processo.

La trascrizione che segue non è di quelle che vengono definite "diplomatiche" (ossia fedeli al testo originario come una fotocopia). Non ho ritenuto opportuna una simile fedeltà perché il testo esaminato non ha valore letterario, ma piuttosto documentario. Per questa ragione ho tradotto in italiano, per comodità dei lettori, le parti scritte in latino (ossia tutte le domande e le note degli Inquisitori).

Comunque, per far sì che i brani tradotti (e quindi "manipolati") fossero riconoscibili, li ho evidenziati servendomi del carattere corsivo.

Pochi i miei interventi. Ho sciolto le abbreviazioni contenute nel manoscritto; ho adeguato all'uso moderno punteggiatura e maiuscole; ho aggiunto qualche accento e apostrofo per facilitare pronuncia e comprensione di parole fortemente dialettali. Qualche rara parola mancante è stata aggiunta fra parentesi acute: "<>".

Fra parentesi quadre, "[]", ho poi aggiunto la chiarificazione di qualche termine un po' oscuro: questo per evitare una tempesta di note a piè di pagina.

Infine col segno convenzionale della doppia barra, "//", ho segnalato l'inizio di una nuova pagina sul manoscritto.

Nessun intervento è stato compiuto sulla grafìa delle parti italiane, per non sopprimerne il "profumo" dialettale lombardo e veneto. Trattandosi della parlata di regioni del Nord Italia, il lettore non si potrà naturalmente attendere molto rispetto delle lettere doppie (delle quali è stato fatto il solito scempio).

Per chi non avesse dimestichezza con i dialetti del Nord Italia segnalerò l'uso di "ge" (che si legge "ghe") e della sua approssimativa traduzione "li/le", che stanno per "gli/le/loro/ci" ("ge dicevo" sta per "gli/le dicevo" e per "dicevo loro"); di "él/l'" (oltre al canonico "e'") per "egli" ("non me ricordo che l'abbia detto" sta per: "che egli abbia detto") ma anche per l'impersonale ("el me fu ditto" = "mi fu detto"; "el gli era" = "c'era"); di "dito/ditto" per "detto", e simili.

Va inoltre segnalata la presenza di alcune peculiarità linguistiche, come la preferenza per i condizionali in "-rìa" anziché in "-rébbe" ("doverìa" piuttosto che "dovrebbe") e per i participi passati tronchi ("sta'" anziché "stato"), lo sporadico troncamento di vocali finali ("ben", "havér", "gioràr"), ed infine la preferenza per la desinenza in "a" della prima persona del passato ("io era" ecc.).

Soprattutto va tenuta presente la tendenza a lenire le consonanti tipica del Nord Italia, che spinge lo scrivano a non poche oscillazioni d'ortografia. Così "sc" diventa "s" sorda ("lassàre", "Brèssa", "lassìve"), "c" dolce diventa "z" sorda ("ciànze", "bràzzo" e viceversa: "ànci") e anche quella che è oggi "s" sonora ("basàre"); mentre "g" dolce (gi/ge) diviene "z" sonora ("zùgno", "bertezàre", "scorazàrsi").

Vi è poi qualche manciata di "prestiti" dal dialetto, che ho provveduto a "tradurre" fra parentesi quadre: "mi" (per "io"), "Domo", "està", "desdotto"; la pittoresca famiglia di incroci del nome "Giovanni" col dialettale "Zuàn/Giuàn" ("Gioani" ecc.) e, per i verbi, "biastemàr", "sentùdo", "posséva", "digàndoce".

Esistono infine latinismi intrufolati dal compilatore del verbale: l'uso di "ti" per il suono "zi" ("vitio", "denontia", "differentia", "Lucretio"); la "h" etimologica in "huomo/homo", "Christo", "monacho", "havere", alhora", "hostia", "catholico", fino a veri e propri calchi dal latino, come in "fabule", "vulgo", "reprehendere", "sustantia", "simplice", "sequente", "scriptura" o "impietà".

Il testo del processo

Giorno 7 febbraio 1550

È comparso messer Giovanni Antonio de Savarisi, cittadino eminente (7) e abitante di Brescia, e ha sporto denuncia al reverendo signore vicario episcopale, e al suo ufficio, contro:

Il prete Francesco dei Calcagni apostata abitante a Brescia nella contrada aromataria de barbisino, già professo [frate che ha preso i voti] nel monastero di Santa Eufemia.

1 Primo ha ditto che non ge [ci] fu mai Christo, et che quello Christo che cossì è ditto dale persone, era homo carnale, et che conosceva spesse volte carnalmente [aveva spesso rapporti sessuali con] S. Gioanni, et che lo teneva per cinedo [amante passivo];

2 Item [parimenti] ha detto che l'hostia, et calice sonno tutte cianze [chiacchere], et che non crede niente che li sia dentro Domenedìo [Dio];

3 Item ha detto che un bel culo era el suo Altare, la sua messa, l'hostia, calice, et la patena;

4 Item che adora più presto [più volentieri] un bel putto carnalmente conoscendolo, che Domenedio;

5 Item che va ricercando, et prega molte persone che gli faciano haver di maschi, per conoscerli carnalmente;

6 Item che se doverìa più presto dar fede alle Metamorphosi d'Ovidio, che al Evangelio;

7 Item che ha biastemato "al dispetto de Dio";

8 Item che tien continovamente vitta sporca;

9 Item che spesso si veste da mondano [laico];

1O Item che è sfratato, et non si è presentato al'ordinario [al suo superiore], et ha commesse tutte queste cose, et continovamente comette, a scandalo di molti.

Et de queste cose se ne potrà informare da Messer Lauro di Glisenti, Messer Iovita Balino chierico, Messer pre Nicolò Ugone, Maestro Pietro di Gratiis, libraro al Domo. //

Primo.

Maestro Pietro delle Grazie, libraio abitante a Brescia, testimone convocato per ottenere le informazioni sopra scritte, dopo aver giurato nelle mani del reverendo signore dottore in diritto civile e canonico Paolo de' Aleni, canonico bresciano, vicario generale nell'episcopato bresciano, e del reverendo signore frate Stefano de' Conforti, Inquisitore dell'eretica pravità, dell'ordine dei predicatori di san Domenico in Brescia, fu verbalizzato ed esaminato nel giorno 13 luglio 1550.

Circa il primo capitolo della denuncia sotto giuramento dichiara: "Praticando [poiché era solito venire] prete Francesco Calcagno nominato nella denontia nella mia botega apresso la porta del Domo [duomo], et cossì ragionando de più cose, esso prete Francesco disse quelle parole <che> se contiene in esso capitolo".

Interrogato su chi fosse presente alle cose predette, risponde: se stesso testimone, il prete Nicolò de Ugoni, che lo rimproverò molto aspramente per quelle parole gravissime, dicendo: "Detto prete Nicolò gli disse: va', sta' con le bestie che tu te doveresti avergognàr", ed era presente anche il signor Lauro de' Glisenti, ed il signor Iovita de' Ballini.

Interrogato su quando ciò fosse successo, risponde: "No me ricordo".

Sul secondo dice: "Non me ricordo che l'habbia ditto le precise parole che sonno in esso, ma me ricordo ben che ha ditto che un bel culo era il suo altare, la sua messa, l'hostia, calice, et la patena".

Interrogato a proposito del luogo, del tempo e degli altri testimoni, risponde come sopra.

Sul terzo capitolo dice: "Più fiate [volte] esso prete Francesco ha ditto che adora più presto [più volentieri] un bel putto carnalmente conoscendolo che Domenedìo".

Interrogato a proposito del tempo e dei presenti, risponde di averlo già detto prima.

Sul quarto capitolo dice che quanto è contenuto in esso è vero, e di saperlo perché più volte disse quelle cose nella sua bottega, dicendo: "Una fiata me disse, et mi testimonio, che volesse farge [fargli] haver delli putti [ragazzetti] che li haverìa pagati".

Sul quinto dice: "Esso prete più volte ha ditto che la Bibia et li Evangeli sono Metamorphosi, et che se doverìa più presto credere alli Metamorphosi d'Ovidio, che alli Evangeli". //

Interrogato a proposito dei presenti, dice di non ricordare, dicendo: "Una fiata el gli era presente se ben me aricordo, Messer Lauro di Glisenti, messer prete Nicolò Ugone, et Messer Iovita Balino".

Interrogato a proposito del luogo, e del tempo, risponde: nella propria bottega, e nella casa dello stesso prete Francesco in contrada di Santa Maria della Pace, e sul tempo quasi un anno o circa.

Sul settimo dice di non sapere nulla, affermando: "El [egli] me disse una volta che l'haveva una femina, et che l'haveva conosciuta carnalmente contra naturam [contro natura], et che era cosa da plebeo a conoscer le donne secundum naturam" [secondo natura], e nessuno era presente a questo colloquio.

Interrogato di quale Ordine sia, risponde: "E' l'era monacho in santa Euphemia de Bressa [Brescia]".

Sulle questioni generali e sulla persona risponde correttamente (8). A questo testimone fu imposto di giurare di non rivelare quanto aveva detto, il che giurò.

Secondo.

Il signor Lauro de' Glisenti da Vestone, abitante a Brescia, testimone convocato per informazione, dopo aver giurato come sopra, fu verbalizzato, ed esaminato come sopra.

Sul primo capitolo della soprascritta denuncia sotto giuramento dice: "Esso prete Francesco più volte ha ditto che Dio non è [esiste], né anima, et che morto il corpo, è morta l'anima, et che quello Cristo che cossì è ditto, è homo carnale, et che quello santo Gioanino era suo cinedo, et che se lo teneva appresso a tavola, et l'amava tanto per sìmel effetto [per questa ragione].

Interrogato circa i presenti, risponde: se stesso testimone, il signor Iovita Balino, il signor Ludovico figlio del signor Luigi Calini, maestro Pietro delle Grazie, il signor Giovanni Paolo Boldrino aiutante del signor Giovan Francesco de Gambara.

Interrogato sul luogo e tempo, risponde: "In casa de Messer Giovanni Antonio di Savarisij a Santa Maria della Pace, et può essere circa un anno".

Sul secondo dice: "È vero che detto prete Francesco più et più volte ha ditto che l'hostia, calice, sonno cose vane, et de niuna [nessuna] sustantia [sostanza, significato], et che è una pazia a credere in messe, et che non è la più bella, la più santa hostia e calice // che <valga> un culo d'un bel putto".

Interrogato sul luogo, sul tempo, e sui presenti, risponde come sopra.

Sul terzo dice che quanto è contenuto in esso è vero, e di averlo udito lui stesso più volte dal detto prete Francesco.

Sul quarto dice: "Più et più volte esso prete Francesco m'ha ditto et pregato, se gli voleva far havere certi putti, che mi haverìa datto a mi testimonio per fargeli haver quatro scudi"; a ciò non era presente nessuno.

Sul quinto dice: "Più volte amorevolmente reprehendendo [rimproverando] detto prete Francesco de queste sue impietà, et dicendogli, non vedete che la sacra scrittura biàs<i>ma, et ha tanto in abominatione questo vitio della sodomia che non potrìa esser più? Et esso prete rispondendo, diceva che: "Oh, tu sei matto se tu dai fede alla sacra scrittura, che differentia è tra questa scrittura" (intendendo parlare della detta sacra scrittura) "et li Metamorphosi d'Ovidio? Anci [anzi] esso Ovidio è più verace che non è essa scrittura", et me diceva che quelli <che> hanno scritta questa scrittura (intendendo come sopra) erano persone del Diavolo, et che facevano questo per far star la gente in timore, et governar il mondo a loro modo, et me diceva spesso quel verso de Lucretio, "Primus in Orbe deos fecit Timor" [la Paura primigenia creò nel mondo gli dèi] eccetera, che troppo non me lo ricordo el fine, et sequente [e il séguito] de ditto verso.

Interrogato sui presenti alle cose appena dette, risponde: "Se stesso testimone e il signor Giovita Ballino".

Sul sesto dice di non sapere nulla.

Sul settimo dice: "Esso prete Francesco quasi ogni notte teneva con seco a dormir un putino figliolo de una Caterina già massara [domestica] de Meser Giovanni Antonio Savarisio (9), et me diceva che la notte lo teneva fra le gambe, et il giorno lo teneva in brazzo, basandolo, et come vedeva qualche bel putto diceva: "Oh se lo potesse haver // pagarìa una bella cosa, et chi lo voleva reprehendere [rimproverare] de questi soi scelerati vitij [vizi], se scorazàva, et non voleva parlare".

Sull'ottavo dice: "Molte volte ho visto esso prete Francesco vestito da secolare, con una beretta de veluto in testa, et andava de notte a putane, et me diceva che non li [le] voleva se non sodomitare [sodomizzare], dicendo che era cosa da plebei et bestie usar [aver rapporti sessuali] con donne secondo la natura".

Aggiungendo: "Detto prete Francesco ragionando insieme, me diceva, digàndoce [dicendogli io] familiarmente "hé, messere, lassàte queste vostre opinione, et credete come fanno li altri boni cristiani, che vedete pur che la santa chiesa catholica si è sempre governata sotto questa fede et <così fa> quasi tutt'il mondo", che <io> era [ero] una bestia, et che il vulgo [la gente] credeva in queste cose che lui diceva, et che il papa, et questi homini grandi credevano come lui, cioè che non vi è Dio, et che non vi era né paradiso, né altro, ma che morto il corpo, è morta l'anima, et che il Tutto se governava a caso, et che non era la più savia et prudente cosa, come attendere a darse bon tempo [badare a divertirsi] in questo mondo, che tutte le altre cose erano favole".

Interrogato chi fosse presente alle affermazioni predette, risponde di non ricordarlo.

Sulle questioni generali e circa la persona risponde correttamente, affermando: "Io non ge [gli] ho portato mai odio a ditto prete Francesco, ma sempre son sta' inimico della sua vita scelerata, et potrìa essere che per questo me volesse male, non dimeno ho ditto la mera, et simplice verità".

Terzo.

Il signor Iovita de' Ballini chierico bresciano, testimone convocato come sopra. Fatto giurare, verbalizzato ed esaminato nel giorno già scritto.

Sulla prima parte della soprascritta denunzia sotto giuramento dice: "Praticando// prete Francesco, nella denontia nominato, nella botega de Mastro Piero di Gratis libraro, dove io testimonio praticava, io ho sentito detto prete Francesco dir più volte parole che inferivano il medemo [medesimo] che è nella denontia, e l'è ben vero che non ho inteso dir a lui le parolle precise che sonno nella denontia, ma ho sentudo [sentito] dir parole tale [tali] che inferivano il medemo, li quali parolle non me le aricordo, et me aricordo anche che fu represo [rimproverato] da mi [me], et dali altri che ivi erano presenti.

Interrogato sul luogo risponde: nella bottega già nominata. Interrogato sul tempo, risponde: "A questa està [estate] passata". Interrogato sugli altri testimoni, risponde: se stesso testimone, il già citato mastro Pietro libraio, il signor Lauro de Glisenti e il prete Nicolao degli Ugoni.

Sul secondo capitolo della detta denuncia, dice di non sapere nulla.

Sul terzo capitolo dice: "E' l'è vero che ditto prete ha ditto più volte in la botega preditta, che un bel culo, era il suo altare, la sua messa, l'hostia, et calice, et patena.

Interrogato sui presenti a quanto appena detto, sul luogo ed il tempo, risponde come sopra, affermando: "Io so che esso prete Francesco ha recercato [richiesto a] esso mastro Piero che gli volesse far haver un putto di [della famiglia] Cinalij, et un putto di Camarlengi per conoscerli carnalmente".

Sul quarto capitolo dice: "Io l'ho inteso più volte, pur nel logo [nello stesso luogo], et presente li preditti, dire che non sapeva che fusse altra felicità che goder un bel putto, et altre parole che voleva inferir le parole che se contiene in ditto capitulo, le quale precise non me le aricordo".

Sul quinto capitolo dice di aver già detto più sopra quello che sa su questa cosa.

Sul sesto capitolo dice: "Me pare haver inteso, parlando con detto prete Francesco de la sacra scrittura, dir che ge [gli] pareva ogni cosa, metamorphosi".

Sul settimo e ottavo capitolo dice di non sapere nulla di quanto è contenuto in essi.// Affermando: "Alle volte esso prete Francesco diceva che non credeva de queste cose della fede, et alle volte diceva, che credeva quello che crede la santa madre chiesa, et che alhora bertezàva [berteggiava, scherzava]".

Interrogato affinché riferisca le predette formali parole proferite dal detto prete Francesco contro la fede cattolica, risponde: "Non me aricordo precise delle parolle che lui diceva, ma hora negava ogni cosa, et hora diceva che credeva ogni cosa, come comanda la santa madre chiesa, et che era cristianissimo".

Interrogato sugli altri testimoni, sul luogo e tempo, risponde come sopra.

Sulle questioni generali e circa la persona risponde correttamente, ed è dell'età di diciannove anni all'incirca, ed è chierico beneficiato, e si comporta rettamente negli affari religiosi.//

Giorno quattordici luglio 1550

Convocato alla presenza del reverendo signore dottore di diritto civile ed ecclesiastico Paolo de' Aleni canonico bresciano, luogotenente e vicario generale nell'episcopato bresciano, e del venerabile signore frate Stefano de' Conforti, inquisitore dell'eretica pravità, di San Domenico di Brescia.

Il prete Francesco de' Calcagni carcerato, e interrogato se sappia la causa del suo imprigionamento risponde di no.

Interrogato se gli fosse mai stato detto che era stato denunciato, risponde di sì.

Interrogato per quali cose gli fosse stato detto che era stato denunciato, risponde: "El me fu ditto che era [ero] sta' querelato che aveva ditto che Cristo teneva per suo bardassa [amante passivo] san Gioanni, et de altre cose che non me ricordo".

Interrogato su quel che avesse detto al proposito, risponde: "Io me ricordo che in casa di un Giovanni Antonio da Preselij, <il> qual stava a santa Maria de la Pace, dove io constituto [imputato] stava de compagnia de esso Giovanni Antonio, una volta, dicendo Messer Lauro di Glisenti da Vestone ch'el non credeva in cosa alcuna, se non quel che se vedeva, io gli disse: "Adoncha [dunque] se po [può] credere et dir de Cristo tutti li mali del mondo, et ch'el teneva s. Gioanni per suo bardassa", o ver altra parolla che voleva dir il simile che non me ricordo precise, et questo fu del mese de zùgno, o de luglio del'anno passato.

Et dopoi al ottobre prossime passato [scorso], se ben me aricordo del tempo, essendo nella botega de Mastro Piero libraro appresso il Domo, dove era anchora [anche] <il> prete Nicolò Ugone, Messer Iovita Balino, Mastro Piero preditto, et Messer Lauro sopraditto, dicendo detto prete Nicolò che credeva tanto alla scrittura, quanto alle fabule de Isoppo [favole di Esopo]; et uno de loro che non mi ricordo, me disse [chiese], che credeva [cosa io credessi] de quello san Gioanino, del quale gli haveva ditto altre volte - intendendo delle parole che ho sopraditte de s. Gioanni - et io gli respose che cosa voleva dir: "ille quem diligebat, et qui recuibuit super pectus eius" [egli che amava, e che giacque sul suo petto] (10), quasi volendo dire quelle parole che io disse de sopra de san Gioani, et // questo disse burlando".

Dicendo: "Al decembre prossime [appena] passato, essendo nella botega del detto mastro Piero, dove era anche el detto Messer Iovita Balino et esso Mastro Piero, essendo io interrogato da esso Iovita ch'io parlasse de Cristo come homo, et non come cristiano, io gli disse che non voleva parlar come homo, essendo cristianissimo, et che me rincresceva delle parolle che haveva ditte per inanti [in precedenza], li quali ho anche sopraditte, et esso mastro Piero disse: "Adoncha [dunque] li havete ditte?", et io gli risposi che sì, et che n'era mal contento, et alhora esso Mastro Piero me represe de quelle parole, et disse che me voleva accusarme, et io in còlera disse ch'el facesse il peggio ch'el posseva [poteva].

Interrogato se avesse detto queste formali parole: "che non ge fo mai Cristo et che quello Cristo che cossì è ditto dalle persone era homo carnale, et che conosceva spesse volte carnalmente san Gioanni, et che lo teneva per cinedo", risponde: "Non me lo ricordo".

Interrogato se avesse mai detto "che l'hostia, et calice sonno tutte cianze, et che non crede niente che li sia dentro Domenedio", risponde: "Non ho ditto quelle parole, ma ho ben ditto a Messer Iovita Balino che era un giovine bello, et che lui era il mio altare, la mia hostia, et la patena, et potrìa essere che ragionando con Giovanni Antonio et Lauro sopradetti de cose lassìve, che io havesse ditto, che un bel culo fosse etc., che non me lo aricordo, per che se ne è ditte tante in quella botega che non me aricordo espressamente".

Interrogato se avesse detto "che adora più presto un bel putto carnalmente conoscendolo, che Domenedìo" risponde: "Non l'ho ditto".

Interrogato se avesse cercato di ottenere dei cinedi, risponde: "Io ho ditto a Mastro Piero, et a Lauro preditti che vedessero se me posseva far haver qualche putti per conoscerli carnalmente, ma burlava".

Interrogato se avesse mai detto "che se doverìa più presto dar fede alli Metamorphosi d'Ovidio, che al'Evangelio, risponde: "Io // ho ditto che la Bibia et li Metamorphosi d'Ovidio erano una cosa medema [medesima], parlando humanamente, et sempre ch'io diceva questo, diceva come homo, et non come cristiano".

Interrogato se avesse mai bestemmiato Dio o i santi, risponde di no.

Interrogato se vada in giro vestito con abiti non sacerdotali, risponde: "Alle volte ge son andato de notte, in logi [luoghi] però honesti".

Dopo di che l'imputato predetto fu ammonito affinché meditasse di dire meglio la verità circa le cose predette, perché risulta che le cose stiano altrimenti.

Giorno quindici luglio 1550

Convocato secondo quanto sopra:

Il soprascritto prete Francesco, e interrogato se avesse meditato di dire meglio la verità su quello che aveva detto, risponde di sì (11).

Interrogato su cosa avesse detto su Cristo, e della sua umanità, e divinità, risponde: "Io non me aricordo quante volte, né in quanti logi, salvo nella botega de Mastro Piero libraro, io ho ditto parlando della sodomia in casa de Zoàn Antonio de Valdesabio [Val Sabbia], che san Paulo, et altri santi detestavano questo vitio, et dicendomi Lauro di Glisenti che san Paulo, et li altri che lo detestavano, che cossì faceva [facevano], per che forsi la ge piaceva [forse piaceva a loro] più che alli altri, et io alhora, et delle altre volte, disse che Cristo era homo come li altri, et che san Gioanni era sta' suo cinedo, et potrìa essere che haverìa anche espresso esser sta' suo bardassa".

Interrogato se avesse detto qualcosa sull'ostia, l'altare, ed il calice, risponde: "Io ho ditto che un bel culo era il mio calice, la mia hostia, et il mio altare".

Interrogato su cosa avesse detto sul sacramento dell'altare, risponde: "Io ho ditto quello medemo che diceva Giovanni Antonio da Preselio [Preseglie], che l'era pane, come l'altro, et ch'el calice et hostia consacrata erano cianze".

Interrogato su cosa avesse detto dell'adorazione di Cristo, risponde: "Io ho ditto che un bel culo, era el paradiso, et Domenedio, et queste// parole li [le] vidi in un libro chiamato La cazzarìa, che m'haveva imprestato il detto Lauro.

Interrogato se avesse bestemmiato, e che che genere di bestemmia, risponde: "Io me ricordo haver biastemato doi [due] volte, una in strata, et l'altra in casa del detto Giovanni Antonio essendo in collera con lui, et disse: al dispetto de Dio".

Interrogato se sia prete secolare o regolare, risponde: "Io son monacho del'ordine de san Benedetto".

Interrogato a che titolo rimane al di fuori dell'ordine religioso, e va in giro in abito da prete secolare, risponde: "Io son sta' nella religione da desdotto [diciotto] in vinti anni, et sonno doi anni che son uscito fora, et avanti che uscisse della religione [ordine religioso], impetrete [impetrai, richiesi] un breve direttivo al ordinario de Bressa, nel qual narrava che io era intratto nella religione "seductus, et ex quadam animi lenitate", [sedotto, e per una certa leggerezza d'animo] et come consta in esso, ma adesso ho pigliata una commissione da la penitentiaria da transferirme a un'altra religione como è espresso in essa".

Interrogato se avesse celebrato dopo essere uscito dall'ordine religioso, risponde: "Io non ho mai celebrato se non dopoi che Messer Carolo Soldo m'ha dispensato".

Interrogato in quali luoghi abbia celebrato, risponde nella chiesa dei santi Bartolomeo e Jesnate in Bressa, et alla terra de Brio, della diocesi de Bressa.

Interrogato per licenza di chi abbia celebrato nei detti luoghi, risponde: "De licentia de li frati, et de padre Nicolò Paradégo".

Interrogato se non sapeva che esiste un editto del reverendissimo signore Carlo affinché nessuno che sia uscito dall'ordine religioso possa celebrare nella città o diocesi di Brescia senza licenza dello stesso reverendissimo per iscritto e di suo pugno, risponde: "E pensava che la mia licentia della penitentiaria me bastasse, per che diceva Non obstantibus quibuscumque [senza limitazioni] etc.".

E quindi il medesimo imputato disse: "Vostre Signorie m'habbiano compasione, et misericordia, per che io ho falato [sbagliato] ignorantamente, et da pazzo, et quando ho ditto le parole soprascritte ne son sta' mal contento, // né mai ho avuto intentione che le fusse [fossero] vere".

Giorno sedici luglio 1550

Condotto di nuovo il prete Francesco soprascritto nella cancelleria, presenti moltissime persone ecclesiastiche e laiche, e lettegli le confessioni soprascritte parola per parola così come sono state verbalizzate, fu interrogato se il contenuto dell'ultima confessione, come pure ciò che aveva confessato nella prima fosse vero, risponde di sì.

Interrogato se voleva ratificare queste cose risponde che ratificava a voce le cose predette.

Dopo di che, eccetera.

[Seguono la sottoscrizione di Giovan Battista Leuco notaio, che attesta che la copia presente è identica al verbale originale, ed un sigillo].

Epilogo

Il 16 agosto 1550 da Brescia è inviata al "Consiglio dei Dieci e Giunta" una lettera che riguarda tre eretici: due sono luterani autentici, il terzo è invece Francesco Calcagno. Nella lettera si fa riferimento alle "parti" (sentenze) del 21 giugno, 28 luglio e 13 agosto (che avocavano il caso a Venezia), e si comunica di avere accluso copia dei loro processi (si spiega così la presenza di un processo bresciano fra le carte dell'Inquisizione di Venezia).

In particolare si legge nella lettera (12): "il primo adonque retenuto fu p. Francesco Calcagno homo non solamente luterano ma sceleratissimo nemico del nostro signor Jesu Christo, <il> qual ha ditto parole e biasteme che quando le signorie vostre le aldirano [udranno] con le sue castissime orechie non potrà esser che non li facino grandissimo orrore, parole così neffande e turpissime del Nostro Signor e de San Zuàn Battista [sic: in realtà San Giovanni Apostolo] che mai né turco né hebreo <e> neancho j demoni non solamente non le hanno mai dite, <ma> neancho imaginate" (omissis).

Il 18 agosto 1550 un'altra lettera dai Rectores Brixiae ("governatori di Brescia": Giovanni Mocenìgo podestà di Brescia, e il marchese Michiél, capitano di Brescia), dicendo che "prima che il cavallaro fosse espedito", era arrivato il vicario del cardinale della città, pregando fra l'altro di poter giudicare lui in persona il Calcagno. È possibile che dietro questa richiesta si celassero pressioni dei famigliari o amici del Calcagno, che desideravano un giudice più "sensibile" alle pressioni locali di quanto non fossero le autorità veneziane, la cui severità nei confronti dei sodomiti era proverbiale.

Il 23 agosto, lettera ai Rectores Brixiae che non tiene in nessun conto la richiesta del vicario ed anzi ordina: "havemo visto il processo, e quanto ne scrivete contra pre Francesco Calcagno, et con il Consiglio nostro di Dieci et zonta, vi commettemo [incarichiamo affinché], che sotto sicurissima custodia, debbiate subito mandar de qui il ditto pre Francesco, et li altri dui ritenuti, alli capi del ditto Consiglio.

Et de mo' sia preso [stabilito], che gionti <che> saranno qui, siano consignati al tribunal deputato sopra li heretici" (cioè all'Inquisizione).

Dopo fatta la sentenza, continua la lettera, i quattro eretici (se ne era aggiunto uno catturato a Venezia) siano rimandati a Brescia con la sentenza, "acciò quei Rettori faccino far la executione nelli loci dove i preditti hanno seminato et fatto li errori, si che siano exemplo et terror alli altri".

Il 23 agosto Francesco Calcagno è effettivamente inviato al tribunale dell'Inquisizione di Venezia.

Il 29 agosto i Rectores inviano lettera "accompagnatoria" per gli estradati a Venezia

Il 14 ottobre i Rectores accusano ricevuta della sentenza definitiva, e comunicano che i libri di Calcagno si trovano presso l'inquisitore di Brescia.

Calcagno è giudicato da una commissione di teologi e dottori. La sentenza è in latino, ma viene riassunta in italiano come segue: "Che el ditto pre Francesco apostata heretico, et era del biastematòr come di sopra, sia degradato in pergolo [tribuna rialzata] de S. Marco una matina a hora de terza in circa solennemente et con effetto, et che poi sotto sicurissima custodia el sia conduto [condotto] a Brescia et consignato alli clarissimi rettori de ditta cità secondo la deliberatione del excellentissimo consiglio dei Dieci et zonta, ad effetto che sue magnificencie lo faciano metter sopra uno solario [soppalco] in sul luogo publico de la giusticia, donde primo letto el tenor della presente nostra sentenza per [da] uno dei suopranominati alta et intelligibili voce astante populi moltitudine [ad alta e comprensibile voce, presente la moltitudine del popolo] per el ministro della giusticia [boia] gli sia tagliato via uno pezzo di lingua, et doppo sùbito troncata la testa via dal busto, et el suo corpo come membro putrido in quel medesimo loco sia brusato" (omissis).

Il 30 dicembre 1550 i Rectores Brixiae scrivono agli inquisitori di Venezia:

"Clarissimi inquisitores fratres [illustrissimi frati inquisitori], alli 23 dell'instante <mese> in questa piazza di Brescia la sentenza fatta (...) contra prete Francesco Calcagno heretico, vicioso, et bestemiatore, fu letta et publicata, et quella ponendo in esecutione, dal maestro di giusticia è sta' tagliata la lingua ad esso prete Francesco, troncata la testa, et il corpo suo arso et brugiato con ardentissimo fuoco sopra essa piazza piena di moltitudine" (13).

Giustizia era fatta.

 



L'Archivio di Storia Gay e Lesbica è a cura di Giovanni Dall'Orto

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