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La percezione dell'omosessualità in Italia negli ultimi decenni

di Gianni Rossi Barilli

Dal "Bollettino della società letteraria di Verona", _________, 19__.

NOTE




La percezione dell'omosessualità in Italia negli ultimi decenni


L’emergere di una identità omosessuale che come categoria dello spirito, o come carattere stabile della commedia sociale, può essere considerata un prodotto originale della nostra cultura, è un processo che matura da lungo tempo - diciamo dal XVIII secolo - e trova le sue ragioni in grandi mutamenti storici, dalla rivoluzione borghese al declino del patriarcato. Ma è soprattutto negli ultimi tre decenni, da quando cioè "uscire fuori" è diventata la parola magica per i gay e le lesbiche di tutto il mondo, che questo processo è divenuto visibile a tutti e sembra avere subito una impressionante accelerazione.

Anche l’Italia, che non si può definire particolarmente all’avanguardia su questo terreno, ne è stata profondamente coinvolta. Prendiamo come anno zero il 1968 e le sue immediate conseguenze, per misurare il cammino percorso dall’idea che anche gli omosessuali debbano essere cittadini normali, senza virgolette. Cosa è cambiato da allora? Moltissimo, se pensiamo agli abissi di silenzio e vergogna che secondo la tradizione erano il contesto più appropriato per peccatori tanto immondi. Poco, invece, se poniamo l’attenzione alla possibilità di vivere in modo totalmente sereno e naturale la propria omosessualità. Ma questa, oggi, è la conquista che gay e lesbiche sperano di tramandare alle future generazioni.

Il 1968, in Italia, fu anche l’anno del processo Braibanti, un buon punto di partenza per analizzare lo scontro tra la mentalità del vecchio ordine morale e la visione più libertaria che si stava affermando. Aldo Braibanti era un intellettuale disorganico che odiava il potere amando teneramente la filosofia e le formiche. Era un diverso nel senso più completo del termine, ma la diversità che gli spalancò le porte del carcere fu non a caso quella omosessuale, l’anello più debole della catena di rinnovamento che germinava nella società.

Nel nostro Paese non esistevano leggi per punire l’omosessualità tra adulti consenzienti, ma nelle pieghe del Codice si trovò il reato di plagio (mostruosità giuridica oggi non più esistente), che con la stessa serietà con la quale l’Inquisizione condannava i sortilegi delle fattucchiere permetteva di perseguire "chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione". Senza che, come nel caso in oggetto, vi fosse violenza manifesta o dimostrabile in buona fede.

Braibanti fu dunque arrestato e condannato a nove anni di reclusione in primo grado per aver "soggiogato" due giovani. Ci interessano qui gli opposti punti di vista dell’accusa e della difesa - quest’ultima rappresentata di fronte all’opinione pubblica da intellettuali come Alberto Moravia, Pierpaolo Pasolini e Umberto Eco - perché restituiscono in modo chiaro i termini di uno contrasto che si stava sviluppando in molte forme nella vita reale.

Nella sua requisitoria contro Braibanti, il pm Antonino Lojacono parlava di degenerazione, di pervertimento demoniaco, di "bisogno del corrotto di diffondere il vizio, così come il drogato diffonde la droga".

A questo linguaggio replicava così Umberto Eco: "A noi la differenza di Braibanti non fa paura. La differenza di chi non sa accettare la differenza, invece, ci preoccupa" (). La sentenza emessa dal tribunale suscitò l’indignazione dell’opinione progressista e trasformò la pena esemplare richiesta dall’accusa in un boomerang. Il braccio di ferro tra le due antitetiche visioni della società si concluse con la vittoria morale di quella nuova. (Braibanti , comunque, scontò due anni di prigione e uscì dalla sentenza di appello con una condanna a sei anni, quattro dei quali condonati).

Nel frattempo esplodevano i movimenti giovanili e operai, con il dichiarato programma di abbattere lo stato borghese e le sue istituzioni, a partire dalla famiglia. Il discorso non poteva non riguardare anche gli omosessuali. Dal 1969, nuovi movimenti di liberazione gay nacquero in tutto l’Occidente. Nel 1971, in Italia, nasceva il Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano (Fuori!), prima organizzazione di gay e lesbiche decisi ad affermare pubblicamente, e polemicamente, la propria diversità. Il movimento omosessuale è stato da allora un grande stimolo per la trasformazione della mentalità collettiva, ma non è stato certo l’unico protagonista (e forse nemmeno il principale) dei cambiamenti avvenuti nell’ultimo quarto di secolo. Poiché qui si tratta di sintetizzare l’entità di questi ultimi è bene individuare diversi ambiti nei quali tentare un’approssimativa misurazione, onde evitare l’uso di una lente esclusivamente politica. Dividerò quindi il seguito di questo articolo in quattro brevi paragrafi: La vita quotidiana degli omosessuali e il suo rapporto con la politica, la società e la cultura (tenendo ovviamente presente che si tratta di elementi strettamente interconnessi e sconfinanti uno nell’altro). Le osservazioni che seguono riguardano principalmente l’omosessualità maschile e solo per analogia, là dove questo è possibile, quella femminile.

LA VITA QUOTIDIANA

La regola generale, fino agli anni ’60, era la doppia vita generata dalla necessità di vivere in clandestinità l’innominabile vizio. La stragrande maggioranza degli omosessuali si sposava, o in ogni caso si costruiva un’esistenza ufficiale totalmente separata dall’espressione del proprio spontaneo orientamento sessuale. Solo pochi, e di solito per motivi di debolezza personale o sociale, erano identificati come omosessuali e fissavano uno stereotipo quanto mai dannato nelle relazioni psichiatriche e nei verbali di questura. Le uniche eccezioni alla regola erano gli ambienti "artistici", nei quali erano tollerate, ancorché stigmatizzate, più creative manifestazioni dell’eros.

La massa degli omosessuali , perciò, era costretta a nascondere le proprie preferenze. Il che non vuol dire che rinunciasse ad esprimerle almeno parzialmente. Si poteva scegliere tra grandi sublimazioni amicali e precari ghetti, come parchi pubblici, toilettes di stazioni ferroviarie o cinema di terz’ordine, dove c’era spazio solo per il sesso. Senza contare le occasioni fortunate o tutte le altre possibilità non regolamentari all’interno di comunità monosessuali (dai conventi, alle carceri alle forze armate). Si doveva in ogni caso fare molto affidamento sulla fantasia. Un anziano omosessuale da me intervistato una quindicina di anni fa, mi raccontò ad esempio di aver sposato la madre del suo giovane amante per poter convivere con lui senza destare sospetti. Il gioco non fu mai scoperto e resse per oltre vent’anni, fino alla morte della moglie (). Supponendo che casi come questo non fossero molto comuni, sembra di poter affermare che il dato dominante della condizione omosessuale fosse la separazione coatta tra il sesso e le altre sfere dell’esistenza. L’amore duraturo era impossibile, come sottolineavano tanto la cronaca nera quanto la letteratura, il sesso si faceva ma per nessuna ragione al mondo si diceva e la vita normale era un’altra cosa, oppure un inferno.

Questo equilibrio, per così dire, consolidato fu sconvolto dalla rivoluzione sessuale degli anni ’70. Anche gli omosessuali, come abbiamo già accennato, fecero la propria parte. Cominciavano a diventare visibili. Si scoprì tra l’altro che il gay della porta accanto poteva fare l’impiegato, lo studente o l’operaio anziché il parrucchiere, l’attore o l’anima persa. Una minore clandestinità, anche se quelli disposti a fare dichiarazioni pubbliche rimanevano (e rimangono) pochissimi, comportò un allargamento del ghetto. Le possibilità di incontro si arricchirono di nuovi luoghi: discoteche, bar, saune, associazioni che nel corso del tempo hanno creato un circuito molto articolato. Si iniziava insomma a vivere con maggiore comodità. Era l’età d’oro dell’erotismo ginnico e polimorfo e i gay vi si dedicarono con impareggiabile entusiasmo. Il modello dominante manteneva la tradizionale scissione tra sessualità e affettività, in una logica che badava più alla quantità che alla qualità dei rapporti e aveva, come ebbe dire un sociologo, "l’orgasmo come unità di computo" (). Si avvertiva però il vuoto di meccanismi puramente di mercato (sessuale) : le nuove generazioni, che avevano più coraggio nell’accettarsi e dichiararsi in famiglia, con gli amici, a scuola o al lavoro, rivendicavano il diritto a essere individui completi nella vita di tutti i giorni. Non avevano "paura di essere felici" () e inventavano nuovi modelli di comportamento. La coppia omosessuale, considerata scientificamente impossibile dalle dottrine ufficiali, iniziò a diffondersi. Il mutamento di prospettive fu drammaticamente accelerato negli anni ’80 dall’epidemia di Aids che tante vittime ha fatto tra gli omosessuali. Il flagello che i reazionari più efferati invocavano a spazzar via le moderne sodome e gomorre si è trasformato in occasione di crescita collettiva, ha creato nuovi legami di solidarietà e ha contribuito a diffondere le relazioni stabili come modello diffuso e legittimo, anche se non unico e tantomeno normativo. Con questa schematizzazione non voglio infatti delineare una teleologia del matrimonio omosessuale, ma solo sottolineare che le evoluzioni degli ultimi quindici anni hanno aperto una possibilità inesistente nel passato. Oggi molti gay e molte lesbiche vivono in coppia senza essere clandestini per i vicini di casa e sono personalmente convinto che questo sia il frutto di una conquista sociale, benché non ancora ratificata dall’ordinamento giuridico.

Quanto detto finora è valido chiaramente per omosessuali adulti e già passati attraverso il coming out. Moltissimi anche a pochi passi dal duemila sono coloro che preferiscono mantenersi nell’oscurità di fronte a se stessi e agli altri. Accettarsi, del resto, non può essere obbligatorio. Ma anche per chi lo fa, le cose non sono semplici. Per ogni gay e ogni lesbica l’identità è sempre una conquista ardua e traumatica. Si viene sempre educati a essere dei buoni eterosessuali e bisogna trovare da soli la forza di essere se stessi. Dice Martine Rothblatt all’inizio di un saggio intitolato l’ "Apartheid del sesso": "In futuro, schedare gli individui alla nascita come ‘maschi’ o ‘femmine’ sarà giudicato iniquo quanto l’ormai abolita pratica sudafricana di stampare ‘nero’ o ‘bianco’ sui documenti d’identità". A quanto pare non si tratta ancora di un futuro tanto prossimo().

LA POLITICA

La consuetudine italiana, caratterizzata dall’ampia delega lasciata dall’autorità secolare alla chiesa cattolica su tutte le questioni riguardanti la morale, ha avuto l’effetto di lasciare fuori dal dibattito politico fino a tempi abbastanza recenti il tema della sessualità. E’ questa, tra le altre cose, la ragione per cui il nostro paese non ha avuto una legislazione penale specificamente antiomosessuale (). La relazione tra sessualità e politica ha tuttavia mutato di segno quando sono entrati in scena movimenti per i diritti di gay e lesbiche. Se prima il problema era quello di tenere alla larga lo stato dalla vita privata dei cittadini per il fondato timore che potesse ulteriormente limitarla, dopo si è potuto pensare alla politica come strumento di legittimazione. Anzi, si è potuto pensare di usarla come grimaldello in un contesto sociale relativamente poco reattivo. In Italia, per varie ragioni storiche che non è il caso di analizzare qui, non si sono create come nel Nordamerica e in alcuni paesi europei forti comunità gay in grado di spingere dal basso i diritti reali prima ancora di quelli legali. Si può dunque comprendere perché sia stata privilegiata la strada della legittimazione politica. Ed è senza dubbio un merito del movimento omosessuale avere introdotto, con grandi a fatiche e alterni risultati, le proprie istanze nel menù politico, meritandosi peraltro un’accusa di politicismo tanto fondata quanto è dubbio che ci fossero vie più fruttuose davvero percorribili.

Il primo compagno di strada politico dei gay italiani fu all’inizio degli anni ’70 il Partito radicale di Marco Pannella, che inserì a pieno titolo l’omosessualità nell’orizzonte delle sue battaglie per i diritti civili. Permeabili al tema si dimostrarono gradualmente anche le organizzazioni della sinistra extraparlamentare nate dai movimenti del 1968-69, che rappresentarono il principale punto di riferimento esterno per i collettivi omosessuali autonomi usciti dal Fuori dopo che questo aveva scelto nel 1974 di federarsi al partito radicale, troppo moderato e borghese dal loro punto di vista(). Parlare di diritti degli omosessuali, si noti bene, significava solo riconoscerne l’esistenza e dar loro solidarietà nel denunciare l’oppressione subita. Solo alla fine degli anni ’70 si cominciò a parlare, senza eccessiva convinzione, di leggi antidiscriminatorie, e di informazione sessuale non omofoba nelle scuole. Ma fu negli anni ’80 che la questione assunse un aspetto più concreto. Tramontate le speranze di un rinnovamento generale, la nuova stagione politica contrassegnata da una grandiosa ricomposizione dell’ordine borghese, ereditava dal recente passato movimenti che portavano avanti istanze "parziali", o almeno come tali recepite dal sistema politico, quali l’ambientalismo, il femminismo e il pacifismo. Possiamo includere tra questi (si parva licet) anche il movimento omosessuale, che per consolidare la propria presenza cercava con determinazione uno stabile dialogo con le istituzioni, i partiti e i sindacati. Unici interlocutori possibili, ma tutt’altro che sicuri, erano i partiti di sinistra e soprattutto il Pci, verso il quale si indirizzavano di necessità molte delle istanze di cui dicevamo. Ebbe inizio un confronto che produsse subito qualche risultato di rilievo. Nelle grandi città guidate da amministrazioni rosse i gruppi omosessuali ottennero ascolto e talvolta qualcosa di più tangibile come sedi e qualche finanziamento per le loro attività. Il caso più emblematico fu quello di Bologna, dove nel 1982 il movimento gay ebbe in affitto dal comune dopo una battaglia memorabile un centro culturale polivalente, il primo in Italia, nello storico Cassero di Porta Saragozza (). Forte di questa conquista Bologna si avviò a diventare la capitale morale del movimento, vocazione ribadita dal fatto che nel 1985 divenne sede permanente dell’Arci gay nazionale, a tutt’oggi la maggiore organizzazione degli omosessuali italiani con circa 50 mila tesserati. Questa nuova sigla, la cui nascita colmò il vuoto creato dalla scomparsa del Fuori (nel 1982) e alla necessità di più forti collegamenti tra gli altri gruppi dispersi nella varie città, faceva non a caso parte dell’Arci, cioè la grande associazione culturale e ricreativa della sinistra. Cercare un’alleanza con il Pci e le altre forze progressiste diventava a questo punto quasi un imperativo genetico. Negli ultimi dieci anni si sono consolidati a livello locale i rapporti con le istituzioni, ma non hanno trovato uno sbocco politico soddisfacente altre richieste qualificanti del programma dell’Arcigay. La principale di queste è il riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso. Nelle ultime legislature sono state presentate proposte di legge sull’argomento, ma nessuna è mai approdata al dibattito parlamentare. La sinistra, e soprattutto il suo maggiore partito, il Pds erede del Pci, ha sempre mantenuto un atteggiamento simpatizzante verso gli omosessuali, ma senza mai prenderli sul serio fino al punto di fare davvero propria la loro battaglia di civiltà. Il più grande riconoscimento politico per gay e lesbiche è arrivato dal parlamento europeo, mentre quello italiano tace: si tratta della celebre risoluzione approvata l’8 febbraio 1994 che con estrema semplicità sancisce il diritto degli omosessuali all’uguaglianza degli affetti e il dovere della legge di proteggerli dalle discriminazioni.

Il terremoto politico-giudiziario cominciato nel 1992 ha introdotto qualche elemento di novità nello scenario. Un fatto non incoraggiante è che il frantumarsi della Democrazia Cristiana ha distribuito in entrambe le coalizioni che si contendono il governo del paese numerosi esponenti del partito cattolico, allineati alle sempre tetragone condanne del Vaticano. Questo produce una sorta di censura preventiva sulla "questione omosessuale" , perché nessuno sembra potersi permettere di litigare con i suoi alleati cattolici, e ha di fatto reso ancor più tiepido in proposito il Pds. In opposta direzione sembrano tuttavia andare le aperture che provengono dalla destra dello schieramento politico, provvista di un’anima liberale giunta a lambire persino le coscienze di qualche esponente del postfascismo democratico di Alleanza Nazionale. Ma qui la strada da fare è davvero tanta.

IL SENSO COMUNE

La nostra società, oggi fortunatamente più di ieri, è iuogo di coesistenza di diversi stili di vita e diverse morali. Rischia perciò di risultare impreciso, e soprattutto astratto, cercare di registrarne i cambiamenti facendo riferimento al senso comune. Sembra tuttavia di poter ascrivere alla (supposta) coscienza collettiva il passaggio dal pubblico interdetto a una moderata, e spesso un po’ pelosa, tolleranza nei riguardi dell’omosessualità. Coloro che attualmente invocano la repressione si possono considerare sempre di più una minoranza residuale. Persino la chiesa cattolica ha dovuto trovare un linguaggio più mite, pur senza modificare la sostanza delle proprie posizioni. Specchio e in qualche misura promotori di questo mutamento sono stati i mezzi di comunicazione di massa. Nelle cronache dei giornali, alla radio e alla tivù non si parla (quasi) più dello "squallido ambiente degli omosessuali" e si concede loro una benevola attenzione, sia pure con insopprimibili propensioni per il bozzetto di costume. Anche se qualche battutaccia può sempre scappare (non è poi la fine del mondo) dilaga il politicamente corretto, che sarà sempre meglio del politicamente scorretto ma finisce per limitarsi a incipriare la realtà con un velo di convenzione. In pubblico e nei talk show, quindi, si dice quindi gay o omosessuale, mentre al bar si continua a dire finocchio. Non si può davvero affermare che l’omosessualità sia vissuta dai più come un comportamento accettabile in tutta tranquillità. Se è in via di estinzione chi la considera un vizio abominevole, non altrettanto vale per chi pensa che sia una malattia, anche quando ha un certo pudore a dichiararlo esplicitamente: questa interpretazione, di cui la scienza ha in gran parte fatto ammenda, continua a godere di grande popolarità. Quanti aprirebbero le braccia al primo colpo al figlio o figlia che confida di essere omosessuale? Non molti, credo, benché sia impossibile appurarlo con un sondaggio. Le indagini a campione ci vengono però in aiuto su un altro tema: le pochissime effettuate sul tema del riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso hanno visto prevalere il parere di coloro che sono contrari. Come si vede, la filosofia italiana del vivi e lascia vivere ha dei limiti piuttosto ristretti. La conclamata evoluzione dei costumi, la frantumazione dei generi e dei ruoli sessuali, è molto più paventata che realizzata. Gli stereotipi sociali, nonostante le scosse, hanno una fortissima capacità di autoriprodursi. L’accesso alla norma eterosessuale che l’educazione - lo abbiamo già notato - prescrive passa attraverso la negazione attiva della (propria) omosessualità. Ne sanno qualcosa per esperienza tutti i bambini deboli costretti alla sgradevole funzione del capro espiatorio. Alle bambine viene risparmiata la competizione virile, ma può andare anche peggio perché la lesbica non è prevista neppure come polarità negativa nell’immaginario corrente.

LA PRODUZIONE CULTURALE

In questo ambito gli ultimi trent’anni sembrano pesanti come secoli. Nella letteratura, nel cinema, nel teatro e nelle scienze umane la rappresentazione dell’omosessualità ha subito, in positivo, una completa trasformazione, in buona parte per merito degli stessi omosessuali che hanno dimostrato di aver ben compreso il nesso esistente tra saperi e poteri. Tanto per fare un esempio eclatante, fino agli anni ’60 (inclusi) le dottrine psichiatriche e psicanalitiche dominanti consideravano un dogma che l’attrazione per persone del proprio sesso fosse un disturbo mentale. Oggi, non solo l’omosessualità è stata depennata dall’elenco ufficiale delle malattie stilato dall’Organizzazione mondiale della sanità e da altri autorevoli organismi, ma ci sono psichiatri e psicanalisti gay che aiutano i loro pazienti a uscire dal tunnel dell’omofobia. E ci sono scienziati gay che cercano strenuamente di dimostrare l’origine biologica - cioè del tutto naturale, - dell’orientamento omosessuale allo scopo di conferirgli una definitiva patente di normalità.() Al di là della incerta fondatezza di tali teorie, bisogna riconoscere che gli oppressi hanno imparato a combattere con le stesse armi usate per opprimerli. La moderna categoria di omosessualità è stata creata dalla cultura in funzione delle armi ideologiche elaborate per giustificarne la repressione(). Sembra quindi il minimo che proprio da uno speculare utilizzo della cultura siano nati gli strumenti per liberare gli omosessuali.

Trasformazioni macroscopiche sono ben visibili anche nella carriera del personaggio omosessuale in letteratura. Il cliché rimasto inalterato dalla prima metà dell’ottocento agli anni ’70 di questo secolo lo prevedeva invariabilmente torbido e infelice, e a questa regola non sfuggivano in genere neppure gli scrittori omosessuali. La letteratura italiana maggiore ha cominciato a occuparsene solo dopo la seconda guerra mondiale: rispettando il più delle volte i canoni ha raccontato storie di emarginazione e tormento. Solo negli ultimi due decenni abbiamo incominciato a leggere di gay che non devono per forza finire male per ispirare un po’ di simpatia. Si tratta di una tendenza destinata a consolidarsi, se dobbiamo giudicare dal crescente numero di opere e autori che entrano brillantemente in argomento (). Decisivo nel proporre modelli positivi, o sempre meno negativi, è stato anche il cinema, all’interno ma soprattutto al di fuori dei circuiti specializzati. Quel che ancora manca sono le soap operas (In Italia, almeno).


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