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BENVENUTO CELLINI (1500-1571), La vita scritta (per lui medesimo) in Firenze.

Il testo è quello messo online dal Progetto Manuzio, che si basa su: La Vita di Benvenuto Cellini, Einaudi, Torino 1973.

Testo inviato da Giovanni Dall'Orto

BENVENUTO CELLINI (1500-1571),

La vita scritta (per lui medesimo) in Firenze.


LIBRO PRIMO

XXX.

[Roma, circa 1520]

[Benvenuto va a una festa portando come sua compagna un ragazzo travestito da donna].

Di già era quasi cessata la peste, di modo che quelli che si ritrovavono vivi molto allegramente l'un l'altro si carezavano. Da questo ne nacque una compagnia di pittori, scultori, orefici, li meglio che fussino in Roma; e il fondatore di questa compagnia si fu uno scultore domandato Michelagnolo.

Questo Michelagnolo era sanese, ed era molto valente uomo, tale che poteva comparire in fra ogni altri di questa professione, ma sopra tutto era questo uomo il più piacevole e il più carnale che mai si cognoscessi al mondo. Di questa detta compagnia lui era il più vecchio, ma sì bene il più giovane alla valitudine del corpo. Noi ci ritrovavomo spesso insieme; il manco si era due volte la settimana.

Non mi voglio tacere che in questa nostra compagnia si era Giulio Romano pittore e Gian Francesco, discepoli maravigliosi del gran Raffaello da Urbino.

Essendoci trovati più e più volte insieme, parve a quella nostra buona guida che la domenica seguente noi ci ritrovassimo a cena in casa sua, e che ciascuno di noi fussi ubbrigato a menare la sua cornacchia, ché tal nome aveva lor posto il ditto Michelagnolo; e chi non la menassi, fussi ubbrigato a pagare una cena attutta la compagnia.

Chi di noi non aveva pratica di tal donne di partito, con non poca sua spesa e disagio se n'ebbe approvvedere, per non restare a quella virtuosa cena svergognato. Io, che mi pensavo d'essere provisto bene per una giovane molto bella, chiamata Pantassilea, la quali era grandemente innamorata di me, fui forzato a concederla a un mio carissimo amico, chiamato il Bachiacca il quali era stato ed era ancora grandemente innamorato di lei.

In questo caso si agitava un pochetto di amoroso isdegno, perché veduto che alla prima parola io la concessi al Bachiacca, parve a questa donna che io tenessi molto poco conto del grande amore che lei mi portava; di che ne nacque una grandissima cosa in ispazio di tempo, volendosi lei vendicare della ingiuria ricevuta da me; la qualcosa dirò poi al suo luogo.

Avvenga che l'ora si cominciava a pressare di appresentarsi alla virtuosa compagnia ciascuno con la sua cornacchia, e io mi trovavo senza e pur troppo mi pareva fare errore mancare di una sì pazza cosa; e quel che più mi teneva si era che io non volevo menarvi sotto il mio lume, in fra quelle virtù tali, qualche spennacchiata cornacchiuccia; pensai a una piacevolezza per acrescere alla lietitudine maggiore risa. Così risolutomi, chiamai un giovinetto de età di sedici anni, il quale stava accanto a me: era figliuolo di uno ottonaio spagnuolo.

Questo giovine attendeva alle lettere latine ed era molto istudioso. Avea nome Diego: era bello di persona, maraviglioso di color di carne: lo intaglio della testa sua era assai più bello che quello antico di Antino e molte volte lo avevo ritratto; di che ne aveva aùto molto onore nelle opere mie.

Questo non praticava con persona, di modo che non era cognusciuto: vestiva molto male e accaso: solo era innamorato dei suoi maravigliosi studi.

Chiamato in casa mia, lo pregai che mi si lasciassi addobbare di quelle veste femminile che ivi erano apparecchiare. Lui fu facile e presto si vestì, e io con bellissimi modi di acconciature presto accresce' gran bellezze al suo bello viso: messigli dua anelletti agli orecchi, dentrovi dua grosse e belle perle - li detti anelli erano rotti; solo istrignevano gli orecchi, li quali parevano che bucati fussino -; da poi li messi al collo collane d'oro bellissime e ricchi gioielli: così acconciai le belle mane di anella.

Da poi piacevolmente presolo per un orecchio, lo tirai davanti a un mio grande specchio. Il qual giovine vedutosi, con tanta baldanza disse: - Oimè, è quel, Diego? - Allora io dissi: - Quello è Diego, il quale io non domandai mai di sorte alcuna piacere: solo ora priego quel Diego, che mi compiaccia di uno onesto piacere: e questo si è, che in quel proprio abito - io volevo che venissi a cena con quella virtuosa compagnia, che più volte io gli avevo ragionato.

Il giovane onesto, virtuoso e savio, levato da sé quella baldanza, volto gli occhi a terra, stette così alquanto senza dir nulla: di poi in un tratto alzato il viso, disse: - Con Benvenuto vengo; ora andiamo -.

Messoli in capo un grande sciugatoio, il quale si domanda in Roma un panno di state, giunti al luogo, di già era comparso ugniuno, e tutti fattimisi incontro: il ditto Michelagnolo era messo in mezzo da Iulio e da Giovanfrancesco.

Levato lo sciugatoio di testa a quella mia bella figura, quel Michelagnolo - come altre volte ho detto, era il più faceto e il più piacevole che inmaginar si possa - appiccatosi con tutte a dua le mane, una a Iulio e una a Gianfrancesco, quanto egli potette in quel tiro li fece abbassare, e lui con le ginocchia in terra gridava misericordia e chiamava tutti e' populi dicendo: - Mirate, mirate come son fatti gli Angeli del Paradiso! che con tutto che si chiamino Angeli, mirate che v'è ancora delle Angiole - e gridando diceva

O Angiol bella, o Angiol degna,
tu mi salva, e tu mi segna.

A queste parole la piacevol creatura ridendo alzò la mano destra, e gli dette una benedizion papale con molte piacevol parole.

Allora rizzatosi Michelagnolo, disse che al Papa si baciava i piedi e che agli Angeli si baciava le gote: e così fatto, grandemente arrossì il giovane, che per quella causa si accrebbe bellezza grandissima.

Così andati innanzi, la stanza era piena di sonetti, che ciascun di noi aveva fatti, e mandatigli a Michelagnolo.

Questo giovine li cominciò a leggere, e gli lesse tutti: accrebbe alle sue infinite bellezze tanto, che saria inpossibile il dirlo.

Di poi molti ragionamenti e maraviglie, ai quali io non mi voglio stendere, che non son qui per questo: solo una parola mi sovvien dire, perché la disse quel maraviglioso Iulio pittore, il quale virtuosamente girato gli occhi a chiunque era ivi attorno, ma più affisato le donne che altri, voltosi a Michelagnolo, così disse: - Michelagnolo mio caro, quel vostro nome di cornacchie oggi a costoro sta bene, benché le sieno qualche cosa manco belle che cornacchie apresso a uno de' più bei pagoni che immaginar si possa -.

Essendo presto e in ordine le vivande, volendo metterci a tavola, Iulio chiese di grazia di volere essere lui quel che a tavola ci mettessi. Essendogli tutto concesso, preso per mano le donne, tutte le accomodò per di dentro e la mia in mezzo; dipoi tutti gli uomini messe di fuori, e me in mezzo, dicendo che io meritavo ogni grande onore.

Era ivi per ispalliera alle donne un tessuto di gelsumini naturali e bellissimi, il quale faceva tanto bel campo a quelle donne, massimo alla mia, che impossibile saria il dirlo con parole. Così seguitammo ciascuno di bonissima voglia quella ricca cena, la quale era abundantissima a maraviglia.

Di poi che avemmo cenato, venne un poco di mirabil musica di voce insieme con istrumenti: e perché cantavano e sonavano con i libri inanzi, la mia bella figura chiese da cantare la sua parte; e perché quella della musica lui la faceva quasi meglio che l'altre, dette tanto maraviglia, che li ragionamenti che faceva Iulio e Michelagnolo non erano più in quel modo di prima piacevoli, ma erano tutti di parole grave, salde e piene di stupore.

Apresso alla musica, un certo Aurelio Ascolano, che maravigliosamente diceva allo improviso, cominciatosi a lodar le donne con divine e belle parole, in mentre che costui cantava, quelle due donne, che avevano in mezzo quella mia figura, non mai restate di cicalare; che una di loro diceva innel modo che la fece a capitar male, l'altra domandava la mia figura in che modo lei aveva fatto, e chi erano li sua amici, e quanto tempo egli era che l'era arrivata in Roma, e molte di queste cose tale.

Egli è il vero che se io facessi solo per descrivere cotai piacevolezze, direi molti accidenti che vi accaddono, mossi da quella Pantassilea, la quale forte era innamorata di me: ma per non essere innel mio proposito, brevemente li passo.

Ora, venuto annoia questi ragionamenti di quelle bestie donne alla mia figura, alla quali noi avevamo posto nome Pomona, la detta Pomona, volendosi spiccare da quelli sciocchi ragionamenti di coloro, si scontorceva ora in sun una banda ora in su l'altra.

Fu domandata da quella femmina, che aveva menata Iulio, se lei si sentiva qualche fastidio. Disse che sì, e che si pensava d'esser grossa di qualche mese, e che si sentiva dar noia alla donna del corpo.

Subito le due donne, che in mezzo l'avevano, mossosi a pietà di Pomona, mettendogli le mane al corpo, trovorno che l'era mastio. Tirando presto le mani a loro con ingiuriose parole, quali si usano dire ai belli giovanetti, levatosi da tavola subito le grida spartesi e con gran risa e con gran maraviglia, il fiero Michelagnolo chiese licenzia da tutti di poter darmi una penitenzia a suo modo.

Avuto il sì, con grandissime gride mi levò di peso, dicendo: - Viva il Signore: viva il Signore - e disse, che quella era la condannagione che io meritavo, aver fatto un così bel tratto.

Così finì la piacevolissima cena e la giornata; e ugniun di noi ritornò alle case sue.


XXXII.

[Roma, circa 1520/21]

[Pentesilea si vendica "rubando" al Cellini un ragazzo, Luigi Pulci, "amico" anche di Michelangelo, e poi marchetta del cardinale Giovanni Balbo]

Se bene io mi discosterò alquanto dalla mia professione, volendo narrare alcuni fastidiosi accidenti intervenuti in questa mia travagliata vita; e perché avendo narrato per l'adrieto di quella virtuosa compagnia e delle piacevolezze accadute per conto di quella donna che io dissi, Pantassilea; la quale mi portava quel falso e fastidioso amore; e isdegnata grandissimamente meco per conto di quella piacevolezza, dove era intervenuto a quella cena Diego spagnuolo di già ditto, lei avendo giurato vendicarsi meco, nacque una occasione, che io descriverò, dove corse la vita mia a ripentaglio grandissimo.

E questo fu che, venendo a Roma un giovanetto chiamato Luigi Pulci, figliuolo di uno de' Pulci al quale fu mozzato il capo per avere usato con la figliuola; questo ditto giovane aveva maravigliosissimo ingegno poetico e cognizione di buone lettere latine; iscriveva bene; era di grazia e di forma oltramodo bello.

Erasi partito da non so che vescovo, ed era tutto pieno di mal franzese. E perché, quando questo giovane era in Firenze, la notte di state in alcuni luoghi della città si faceva radotti innelle proprie strade, dove questo giovane in fra i migliori si trovava a cantare allo inproviso; era tanto bello udire il suo, che il divino Michelagnolo Buonaroti, eccellentissimo scultore e pittore, sempre che sapeva dov'egli era, con grandissimo desiderio e piacere lo andava a udire; e un certo, chiamato il Piloto, valentissimo uomo, orefice, e io gli facevomo campagnia.

In questo modo accadde la cognizione infra Luigi Pulci e me; dove, passato di molti anni, in quel modo mal condotto mi si scoperse a Roma, pregandomi che io lo dovessi per l'amor de Dio aiutare.

Mossomi a compassione per le gran virtù sua, per amor della patria, e per essere il proprio della natura mia, lo presi in casa e lo feci medicare in modo, che per essere a quel modo giovane, presto si ridusse alla sanità.

In mentre che costui procacciava per essa sanità, continuamente studiava, e io lo avevo aiutato provveder di molti libri sicondo la mia possibilità; in modo che, cognosciuto questo Luigi il gran benifizio ricevuto da me, più volte con parole e con lacrime mi ringraziava, dicendomi che se Idio li mettessi mai inanzi qualche ventura, mi renderebbe il guidardone di tal benifizio fattoli. Al quale io dissi, che io non avevo fatto allui quello che io arei voluto, ma sì bene quel che io potevo, e che il dovere delle creature umane si era sovvenire l'una l'altra; solo gli ricordavo che questo benifizio, che io gli avevo fatto, lo rendessi a un altro che avessi bisogno di lui, sì bene come lui ebbe bisogno di me; e che mi volessi bene da amico, e per tale mi tenessi.

Cominciò questo giovane a praticare la Corte di Roma, nella quale presto trovò ricapito, e acconciossi con un vescovo, uomo di ottanta anni, ed era chiamato il vescovo Gurgensis. Questo vescovo aveva un nipote, che si domandava misser Giovanni: era gentiluomo veniziano.

Questo ditto misser Giovanni dimostrava grandemente d'essere innamorato delle virtù di questo Luigi Pulci, e sotto nome di queste sue virtù se l'aveva fatto tanto domestico, come se fussi lui stesso.

Avendo il detto Luigi ragionato di me e del grande obrigo che lui mi aveva, con questo misser Giovanni, causò che 'l detto misser Giovanni mi volse conoscere. Nella qual cosa accadde, che avendo io una sera infra l'altre fatto un po' di pasto a quella già ditta Pantassilea, alla qual cena io avevo convitato molti virtuosi amici mia, sopragiuntoci a punto ne l'andare a tavola il ditto misser Giovanni con il ditto Luigi Pulci, apresso alcuna cirimonia fatta, restorno a cenare con esso noi.

Veduto questa isfacciata meritrice il bel giovine, subito gli fece disegno addosso; per la qual cosa, finito che fu la piacevole cena, io chiamai da canto il detto Luigi Pulci, dicendogli, per quanto obrigo lui s'era vantato di avermi, non cercassi in modo alcuno la pratica di quella meretrice. Alle qual parole lui mi disse: - Oimè, Benvenuto mio, voi mi avete dunque per uno insensato? - Al quale io dissi: - Non per insensato, ma per giovine; e per Dio gli giurai che di lei io non ho un pensiero al mondo, ma di voi mi dorrebbe bene, che per lei voi rompessi il collo -.

Alle qual parole lui giurò che pregava Idio che, se mai e' le parlassi, subito rompesse il collo. Dovette questo povero giovane fare tal giuro a Dio con tutto il cuore, perché e' roppe il collo, come qui appresso si dirà.

Il detto misser Giovanni si scoprì seco d'amore sporco e non virtuoso; perché si vedeva ogni giorno mutare veste di velluto e di seta al ditto giovane, e si cognosceva ch'e' s'era dato in tutto alla scelleratezza e aveva dato bando alle sue belle mirabili virtù, e faceva vista di non mi vedere e di non mi cognoscere, perché io lo avevo ripreso, dicendogli che s'era dato in preda a brutti vizii i quali gli arien fatto rompere il collo come disse.


XXXIII.

[Benvenuto coltello alla mano, fa una scenata di gelosia… a Pentesilea per aver trescato con Luigi Pulci, e sconfigge da solo sedici poliziotti armati che li volevano proteggere!]

Gli aveva quel suo misser Giovanni compro un cavallo morello bellissimo, in el quale aveva speso centocinquanta scudi.

Questo cavallo si maneggiava mirabilissimamente, in modo che questo Luigi andava ogni giorno a saltabeccar con questo cavallo intorno a questa meretrice Pantassilea.

Io, avedutomi di tal cosa, non me ne curai punto, dicendo che ogni cosa faceva secondo la natura sua; e mi attendevo a' mia studi.

Accadde una domenica sera, che noi fummo invitati da quello scultore Michelagnolo sanese a cena seco; ed era di state.

A questa cena ci era il Bachiacca già ditto, e con esso aveva menato quella ditta Pantassilea, sua prima pratica. Così essendo a tavola a cena, lei era a sedere in mezzo fra me e il Bachiacca ditto: in su il più bello della cena lei si levò da tavola, dicendo che voleva andare a alcune sue commodità, perché si sentiva dolor di corpo, e che tornerebbe subito.

In mentre che noi piacevolissimamente ragionavàno e cenavamo, costei era soprastata alquanto più che il dovere. Accadde che, stando in orecchi, mi parve sentire isghignazzare così sommissamente nella strada. Io teneva un coltello in mano, il quale io adoperavo in mio servizio a tavola. Era la finestra tanto appresso alla tavola, che sollevatomi alquanto, viddi nella strada quel ditto Luigi Pulci insieme con la ditta Pantassilea, e senti' di loro Luigi che disse: - Oh se quel diavolo di Benvenuto ci vedessi, guai a noi! - E lei disse: - Non abiate paura; sentite che romore e' fanno: pensano a ogni altra cosa che a noi -.

Alle qual parole io, che gli avevo conosciuti, mi gittai da terra la finestra, e presi Luigi per la cappa e col coltello che io avevo in mano certo lo ammazzavo; ma perché gli era in sun un cavalletto bianco, al quale lui dette di sprone, lasciandomi la cappa in mano per campar la vita.

La Pantassilea si cacciò a fuggire in una chiesa quivi vicina.

Quelli che erano a tavola, subito levatisi, tutti vennono alla volta mia, pregandomi che io non volessi disturbate né me né loro a causa di una puttana; ai quali io dissi, che per lei io non mi sarei mosso, ma sì bene per quello scellerato giovine, il quale dimostrava di stimarmi sì poco: e così non mi lasciai piegare da nessuna di quelle parole di quei virtuosi uomini da bene; anzi presi la mia spada e da me solo me ne andai in Prati; perché la casa dove noi cenavamo era vicina alla porta di Castello, che andava in Prati.

Così andando alla volta di Prati, non istetti molto che, tramontato il sole, a lento passo me ne ritornai in Roma. Era già fatto notte e buio, e le porte di Roma non si serravano. Avvicinatosi a dua ore, passai da casa di quella Pantassilea, con animo, che, essendovi quel Luigi Pulci, di fare dispiacere a l'uno e l'altro.

Veduto e sentito che altri non era in casa che una servaccia chiamata la Canida, andai a posare la cappa e il fodero della spada, e così me ne venni alla ditta casa, la quali era drieto a Banchi in sul fiume del Tevero.

Al dirimpetto a questa casa si era un giardino di uno oste, che si domandava Romolo: questo giardino era chiuso da una folta siepe di marmerucole, innella quale così ritto mi nascosi, aspettando che la ditta donna venissi a casa insieme con Luigi.

Alquanto soprastato, capitò quivi quel mio amico detto il Bachiacca, il quale o sì veramente se l'era immaginato, o gli era stato detto.

Somissamente mi chiamò compare (che così ci chiamavamo per burla); e mi pregò per l'amor di Dio, dicendo queste parole quasi che piangendo: - Compar mio, io vi priego che voi non facciate dispiacere a quella poverina, perché lei non ha una colpa al mondo -. A il quale io dissi: - Se a questa prima parola voi non mi vi levate dinanzi, io vi darò di questa spada in sul capo -.

Spaventato questo mio povero compare, subito se li mosse il corpo, e poco discosto possette andare, che bisognò che gli ubbidissi.

Gli era uno stellato, che faceva un chiarore grandissimo: in un tratto io sento un romore di più cavagli e da l'un canto e dall'altro venivano inanzi: questi si erano il ditto Luigi e la ditta Pantassilea accompagnati da un certo misser Benvegnato perugino, cameriere di papa Clemente, e con loro avevano quattro valorosissimi capitani perugini, con altri bravissimi giovani soldati: erano in fra tutti più che dodici spade.

Quando io viddi questo, considerato che io non sapevo per qual via mi fuggire, m'attendevo a ficcare in quella siepe; e perché quelle pungente marmerucole mi facevano male, e mi aissavo come si fa il toro, quasi risolutomi di fare un salto e fuggire; in questo, Luigi aveva il braccio al collo alla ditta Pantassilea, dicendo: - Io ti bacerò pure un tratto, al dispregio di quel traditore di Benvenuto -.

A questo, essendo molestato dalle ditte marmerucole e sforzato dalle ditte parole del giovine, saltato fuora, alzai la spada, e con gran voce dissi: - Tutti siate morti -.

In questo il colpo della spada cadde in su la spalla al detto Luigi: e perché questo povero giovine que' satiracci l'avevano tutto inferrucciato di giachi e d'altre cose tali, il colpo fu grandissimo; e voltasi la spada, dette in sul naso e in su la bocca alla ditta Pantassilea.

Caduti tutti a dua in terra, il Bachiacca con le calze a mezza gamba gridava e fuggiva.

Vòltomi agli altri arditamente con la spada, quelli valorosi uomini, per sentire un gran romore che aveva mosso l'osteria, pensando che quivi fossi l'esercito di cento persone, se bene valorosamente avevano messo mano alle spade, due cavalletti infra gli altri ispaventati gli missono in tanto disordine, che gittando dua di quei migliori sottosopra, gli altri si missono in fuga: e io veduto uscirne a bene, con velocissimo corso e onore usci' di tale impresa, non volendo tentare più la fortuna che il dovere.

In quel disordine tanto smisurato s'era ferito con le loro spade medesime alcun di quei soldati e capitani, e misser Benvegnato ditto, camerier del papa, era stato urtato e calpesto da un suo muletto; e un servitore suo, avendo messo man per la spada, cadde con esso insieme, e lo ferì in una mana malamente. Questo male causò, che più che tutti li altri quel misser Benvegnato giurava in quel lor modo perugino, dicendo: - Per lo... di Dio che io voglio che Benvegnato insegni vivere a Benvenuto - e commesse a un di quei sua capitani, forse più ardito che gli altri, ma per esser giovane aveva manco discorso.

Questo tale mi venne a trovare dove io mi ero ritirato, in casa un gran gentiluomo napoletano, il quale avendo inteso e veduto alcune cose della mia professione, apresso a quelle la disposizione de l'animo e del corpo atta a militare, la qual cosa era quella a che il gentiluomo era inclinato; in modo che, vedutomi carezzare, e trovatomi ancora io nella propria beva mia, feci una tal risposta a quel capitano, per la quale io credo che molto si pentissi di essermi venuto inanzi.

Apresso a pochi giorni, rasciutto alquanto le ferite e a Luigi e alla puttana e a quelli altri, questo gran gentiluomo napoletano fu ricerco da quel misser Benvegnato, al cui era uscito il furore, di farmi far pace con quel giovane detto Luigi, e che quelli valorosi soldati, li quali non avevano che far nulla con esso meco, solo mi volevano cognoscere.

La qual cosa quel gentiluomo disse attutti, che mi merrebbe dove e' volevano, e che volontieri mi farebbe far pace; con questo, che non si dovessi né dall'una parte né dall'altra ricalcitrar parole, perché sarebbon troppo contra il loro onore; solo bastava far segno di bere e baciarsi, e che le parole le voleva usar lui, con le quale lui volontieri li salveria.

Così fu fatto. Un giovedì sera il detto gentiluomo mi menò in casa al ditto misser Benvegnato, dove era tutti quei soldati che s'erano trovati a quella isconfitta, ed erano ancora a tavola.

Con il gentiluomo mio era più di trenta valorosi uomini, tutti ben armati; cosa che il ditto misser Benvegnato non aspettava.

Giunti in sul salotto, prima il detto gentiluomo, e io apresso, disse queste parole: - Dio vi salvi, signori: noi siamo giunti a voi, Benvenuto e io, il quale io lo amo come carnal fratello; e siamo qui volentieri a far tutto quello che voi avete volontà di fare -.

Misèr Benvegnato, veduto empiersi la sala di tante persone, disse: - Noi vi richiedemo di pace e non d'altro -.

Cosí misèr Benvegnato promisse, che la corte del governator di Roma non mi darebbe noia.

Facemmo la pace: onde io subito mi ritornai alla mia bottega, non potendo stare una ora sanza quel gentiluomo napoletano, il quale o mi veniva a trovare o mandava per me.

In questo mentre guarito il ditto Luigi Pulci, ogni giorno era in quel suo cavallo morello, che tanto bene si maneggiava.

Un giorno in fra gli altri, essendo piovegginato, e lui atteggiava il cavallo a punto in su la porta di Pantassilea, isdrucciolando cadde, e il cavallo addòssogli; rottosi la gamba dritta in tronco, in casa la ditta Pantassilea ivi a pochi giorni morì, e adempié il giuro che di cuore lui a Dio aveva fatto.

Così si vede che Idio tien conto de' buoni e de' tristi, e a ciascun dà il suo merito.


LIBRO SECONDO

XXIX.

[Francia, 1543]

[L'unico processo per sodomia da cui Cellini uscì assolto, e l'unico di cui ci parla. Con una donna (sua amante, egli dice). C'è da credere che fosse davvero innocente!].

Di poi dua giorni appresso, venendo la festa, messer Mattia del Nazaro, ancora lui italiano e servitor del Re, della medesima professione valentissimo uomo, m'aveva invitato con quelli mia giovani a godere a un giardino.

Per la qual cosa io mi messi in ordine, e dissi ancora a Pagolo che lui dovessi venire a spasso a rallegrarsi, parendomi d'avere alquanto quietato un poco quella ditta fastidiosa lite.

Questo giovane mi rispose dicendomi: - Veramente che sarebbe grande errore a lasciare la casa così sola: vedete quant'oro, argenti e gioie voi ci avete. Essendo a questo modo in città di ladri, bisogna guardarsi di dì come di notte: io mi attenderò a dire certe mie orazioni, in mentre che io guarderò la casa; andate con l'animo posato a darvi piacere e buon tempo: un'altra volta farà un altro questo uffizio -.

Parendomi di andare con l'animo riposato, insieme con Pagolo, Ascanio e il Chioccia al ditto giardino andammo a godere, e quella giornata gran pezzo d'essa passammo lietamente. Cominciatosi a 'pressare più inverso la sera, sopra il mezzo giorno mi toccò l'umore, e cominciai a pensare a quelle parole che con finta semplicità m'aveva detto quello isciagurato; montai in sul mio cavallo e con dua mia servitori tornai al mio castello; dove io trovai Pagolo e quella Caterinaccia quasi in sul peccato; perché giunto che io fui, la franciosa ruffiana madre con gran voce disse: - Pagolo, Caterina, gli è qui il padrone -.

Veduto venire l'uno e l'altro ispaventati e sopragiunti a me tutti scompigliati, non sapendo né quello che lor si dicevano, né, come istupidi, dove loro andavano, evidentemente si cognobbe il commesso lor peccato.

Per la qual cosa sopra fatta la ragione dall'ira, messi mano alla spada, resolutomi per ammazzargli tutt'a dua.

Uno si fuggì, l'altra si gittò in terra ginocchioni, e gridava tutte le misericordie del cielo.

Io, che arei prima voluto dare al mastio, non lo potendo così giugnere al primo, quando da poi l'ebbi raggiunto intanto m'ero consigliato: il mio meglio si era di cacciargli via tutt'a dua; perché con tante altre cose fattesi vicine a questa, io con difficultà arei campato la vita. Però dissi a Pagolo: - Se gli occhi mia avessino veduto quello che tu, ribaldo, mi fai credere, io ti passerei dieci volte la trippa con questa spada: or lievamiti dinanzi, che se tu dicesti mai il Pater nostro, sappi che gli è quel di san Giuliano -. Di poi cacciai via la madre e la figliuola a colpi di pinte, calci e pugna.

Pensorno vendicarsi di questa ingiuria, e conferito con uno avvocato normando, insegnò loro che lei dicessi che io avessi usato seco al modo italiano; qual modo s'intendeva contro natura, cioè in soddomia; dicendo: - Per lo manco, come questo italiano sente questa tal cosa, e saputo quanto e' l'è di gran pericolo, subito vi donerà parecchi centinaia di ducati, acciò che voi non ne parliate, considerando la gran penitenzia che si fa in Francia di questo tal peccato -.

Così rimasino d'accordo: mi posono l'accusa, e io fui richiesto.


XXX.

Quanto più cercavo di riposo, tanto più mi si mostrava le tribulazione. Offeso dalla fortuna ogni dì in diversi modi, cominciai a pensare qual cosa delle dua io dovevo fare; o andarmi con Dio e lasciare la Francia nella sua malora; o sì veramente combattere anche questa pugna e vedere a che fine m'aveva creato Idio.

Un gran pezzo m'ero tribolato sopra questa cosa; all'utimo poi, preso per resoluzione d'andarmi con Dio, per non voler tentare tanto la mia perversa fortuna, che lei m'avessi fatto rompere il collo, quando io fui disposto in tutto e per tutto, e mosso i passi per dar presto luogo a quelle robe che io non potevo portar meco, e quell'altre sottile, il meglio che io potevo, accomodarle a dosso a me e miei servitori, pur con molto mio grave dispiacere faceva tal partita. Ù

Era rimasto solo innun mio studiolo; perché quei mia giovani, che m'avevano confortato che io mi dovessi andar con Dio, dissi loro, che gli era bene che io mi consigliassi un poco da per me medesimo; con tutto ciò che io conoscevo bene che loro dicevano in gran parte il vero; perché da poi che io fussi fuor di prigione e avessi dato un poco di luogo a questa furia, molto meglio mi potrei scusare con il Re, dicendo con lettere questo tale assassinamento fattomi sol per invidia.

E sì come ho detto, m'ero risoluto a far così; e mossomi, fui preso per una spalla e volto, e una voce che disse animosamente: - Benvenuto, come tu suoi, e non aver paura -.

Subito presomi contrario consiglio da quel che avevo fatto, i' dissi a quei mia giovani taliani: - Pigliate le buone arme e venite meco, e ubbidite a quanto io vi dico, e non pensate ad altro, perché io voglio comparire. Se io mi partissi, voi andresti l'altro dì tutti in fumo; sì che ubbidite e venite meco -.

Tutti d'accordo quelli giovani dissono: - Da poi che noi siamo qui e viviamo del suo, noi doviamo andar seco e aiutarlo insinché c'è vita a ciò che lui proporrà; perché gli ha detto più il vero che noi non pensavamo. Subito che e' fossi fuora di questo luogo, e' nemici sua ci farebbon tutti mandar via. Consideriamo bene le grande opere, che son qui cominciate, e di quanta grande inportanza le sono: a noi non ci basterebbe la vista di finirle sanza lui, e li nimici sua direbbono che e' se ne fussi ito per non gli bastar la vista di fluire queste cotale imprese -.

Dissono di molte parole, oltre a queste, d'importanza. Quel giovane romano de' Macaroni fu il primo a metter animo agli altri: ancora chiamò parecchi di quei tedeschi e franciosi che mi volevan bene.

Eramo dieci infra tutti: io presi il cammino dispostomi resoluto di non mi lasciare carcerare vivo.

Giunto alla presenza dei giudici cherminali, trovai la ditta Caterina e sua madre.

Sopragiunsi loro addosso che le ridevano con un loro avvocato: entrai drento e animosamente domandai il giudice, che gonfiato, grosso e grasso, stava elevato sopra gli altri in su 'n un tribunale.

Vedutomi quest'uomo, minaccioso con la testa, disse con sommissa voce: - Se bene tu hai nome Benvenuto, questa volta tu sarai il mal venuto -.

Io intesi, e replicai un'altra volta dicendo: - Presto ispacciatemi: ditemi quel che io son venuto a far qui -.

Allora il ditto giudice si volse a Caterina e le disse: - Caterina, di' tutto quel che t'è occorso d'avere a fare con Benvenuto -.

La Caterina disse che io avevo usato seco al modo della Italia. Il giudice voltosi a me, disse: - Tu senti quel che la Caterina dice, Benvenuto -.

Allora io dissi: - Se io avessi usato seco al modo italiano, l'arei fatto solo per desiderio d'avere un figliuolo, sì come fate voi altri -.

Allora il giudice replicò, dicendo: - Ella vuol dire che tu hai usato seco fuora del vaso dove si fa figliuoli -.

A questo io dissi che quello non era il modo italiano; anzi che doveva essere il modo franzese, da poi che lei lo sapeva e io no; e che io volevo che lei dicessi a punto innel modo che io avevo aùto a far seco.

Questa ribaldella puttana iscelleratamente disse iscoperto e chiaro il brutto modo che la voleva dire.

Io gnene feci raffermare tre volte l'uno appresso a l'altro; e ditto che l'ebbe, io dissi ad alta voce: - Signor giudice, luogotenente del Re Cristianissimo, io vi domando giustizia; perché io so che le legge del Cristianissimo Re a tal peccato promettono il fuoco a l'agente e al paziente; però costei confessa il peccato: io non la cognosco in modo nessuno: la ruffiana madre è qui che per l'un delitto e l'altro merita il fuoco; io vi domando iustizia -.

E queste parole replicavo tanto frequente e ad alta voce, sempre chiedendo il fuoco per lei e per la madre: dicendo al giudice, che se non la metteva prigione alla presenza mia, che io correrei al Re, e direi la ingiustizia che mi faceva un suo luogotenente cherminale.

Costoro a questo mio gran romore cominciorno a 'bassar le voci; allora io l'alzavo più: la puttanella a piagnere insieme con la madre, e io al giudice gridavo: - Fuoco, fuoco -.

Quel poltroncione, veduto che la cosa non era passata in quel modo che lui aveva disegnato, cominciò con più dolce parole a iscusare il debole sesso femminile.

A questo, io considerai che mi pareva pure d'aver vinto una gran pugna, e borbottando e minacciando, volentieri m'andai con Dio; che certo arei pagato cinquecento scudi a non v'esser mai comparso.

Uscito di quel pelago, con tutto il cuore ringraziai Idio, e lieto me ne tornai con i mia giovani al mio castello.


LXI.

[Firenze, 1546]

[La prostituta Gambetta chiede soldi a Cellini per corrompere le autorità di polizia perché non arrestasse il figlio Cencio per ciò che egli aveva fatto assieme a lui. Cellini la caccia insultandola…]

Avendo di già condotto la figura della gran Medusa, sì come io dissi, avevo fatto la sua ossatura di ferro: di poi fattala di terra, come di notomia, e magretta un mezzo dito, io la cossi benissimo; di poi vi messi sopra la cera e fini'la innel modo che io volevo che la stessi.

Il Duca, che più volte l'era venuta a vedere, aveva tanta gelosia che la non mi venissi di bronzo, che egli arebbe voluto che io avessi chiamato qualche maestro che me la gittassi.

E perché Sua Eccellenzia parlava continuamente e con grandissimo favore delle mie saccenterie, il suo maiordomo, che continuamente cercava di qualche lacciuolo per farmi rompere il collo, e perché gli aveva l'autorità di comandare a' bargelli e a tutti gli uffizi della povera isventurata città di Firenze, che un pratese, nimico nostro, figliuol d'un bottaio, ignorantissimo, per essere stato pedante fradicio di Cosimo de' Medici innanzi che fussi duca, fussi venuto in tanta grande autorità, sì come ho detto, stando vigilante quanto egli poteva per farmi male, veduto che per verso nessuno lui non mi poteva appiccare ferro addosso, pensò un modo di far qualcosa.

E andato a trovare la madre di quel mio fattorino, che aveva nome Cencio, e lei la Gambetta, dettono uno ordine, quel briccon pedante e quella furfante puttana, di farmi uno spavento, acciò che per quello, io mi fussi andato con Dio.

La Gambetta, tirando all'arte sua, uscì, di commessione di quel pazzo ribaldo pedante maiordomo: e perché gli avevano ancora indettato il bargello, il quale era un certo bolognese, che per far di queste cose il Duca lo cacciò poi via; venendo un sabato sera, alle tre ore di notte mi venne a trovare la ditta Gambetta con il suo figliuolo, e mi disse che ella l'aveva tenuto parecchi dì rinchiuso per la salute mia.

Alla quale io risposi che per mio conto lei non lo tenessi rinchiuso: e ridendomi della sua puttanesca arte, mi volsi al figliuolo in sua presenza e gli dissi: - Tu lo sai, Cencio, se io ho peccato teco - il qual piagnendo disse che no.

Allora la madre, scotendo il capo, disse al figliuolo: - Ahi ribaldello, forse che io non so come si fa? - poi si volse a me, dicendomi che io lo tenessi nascosto in casa, perché il bargello ne cercava, e che l'arebbe preso ad ogni modo fuor di casa mia; ma che in casa mia non l'arebbon tocco.

A questo io le dissi che in casa mia io aveva la sorella vedova con sei sante figlioline, e che io non volevo, in casa mia, persona.

Allora lei disse che 'l maiordomo aveva dato le commessione al bargello e che io sarei preso a ogni modo; ma poiché io non volevo pigliare il figliuolo in casa, se io le davo cento scudi potevo non dubitar più di nulla, perché essendo il maiordomo tanto grandissimo suo amico, io potevo star sicuro che lei gli arebbe fatto fare tutto quel che allei piaceva, purché io le dessi li cento scudi.

Io ero venuto in tanto furore, col quale io le dissi: - Levamiti d'innanzi, vituperosa puttana, che se non fussi per onor di mondo e per la innocenzia di quello infelice figliuolo che tu hai quivi, io ti arei di già iscannata con questo pugnaletto, che dua o tre volte ci ho messo su le mane -.

E con queste parole, con molte villane urtate, lei e 'l figliuolo pinsi fuor di casa.


LXII.

[… ma il giorno dopo Benvenuto, innocente, fugge a Venezia a gambe levate, e torna solo dopo essersi assicurato che il Granduca non intendesse farlo processare].

Considerato poi da me la ribalderia e possanza di quel mal pedante, giudicai che il mio meglio fussi di dare un poco di luogo a quella diavoleria, e la mattina di buon'ora, consegnato alla mia sorella gioie e cose per vicino a dumila scudi, montai a cavallo e me ne andai alla volta di Vinezia, e menai meco quel mio Bernardino di Mugello.

E giunto che io fui a Ferrara, io scrissi alla Eccellenzia del Duca che se bene io me n'ero ito sanza esserne mandato, io ritornerei sanza esser chiamato.

Di poi, giunto a Vinezia, considerato con quanti diversi modi la mia crudel fortuna mi straziava, niente di manco trovandomi sano e gagliardo mi risolsi di schermigliar con essa al mio solito.

E in mentre andavo così pensando a' fatti miei, passandomi tempo per quella bella e ricchissima città, avendo salutato quel maraviglioso Tiziano pittore e Iacopo del Sansovino, valente scultore e architetto nostro fiorentino molto ben trattenuto dalla Signoria di Venezia, e per esserci conosciuti nella giovanezza in Roma e in Firenze come nostro fiorentino, questi duoi virtuosi mi feciono molte carezze.

L'altro giorno a presso io mi scontrai in messer Lorenzo de' Medici, il quale subito mi prese per mano con la maggior raccoglienzia che si possa veder al mondo, perché ci eràmo cognosciuti in Firenze quando io facevo le monete al duca Lessandro, e di poi in Parigi, quando io ero al servizio del Re.

Egli si tratteneva in casa di messer Giuliano Buonacorsi, e per non aver dove andarsi a passar tempo altrove sanza grandissimo suo pericolo, egli si stava più del tempo in casa mia, vedendomi lavorare quelle grand'opere.

E sì come io dico, per questa passata conoscenzia, egli mi prese per mano e menòmi a casa sua, dov'era il signor Priore delli Strozzi, fratello del signor Pietro, e rallegrandosi, mi domandorno quanto io volevo soprastare in Venezia, credendosi che io me ne volessi ritornare in Francia.

A' quali Signori io dissi che io mi ero partito di Fiorenze per una tale occasione sopra detta, e che fra dua o tre giorni io mi volevo ritornare a Fiorenze a servire il mio gran Duca.

Quando io dissi queste parole, il signor Priore e messer Lorenzo mi si volsono con tanta rigidità, che io ebbi paura grandissima, e mi dissono: - Tu faresti il meglio a tornartene in Francia, dove tu sei ricco e conosciuto; che se tu torni a Firenze, tu perderai tutto quello che avevi guadagnato in Francia, e di Firenze non trarrai altro che dispiaceri -.

Io non risposi alle parole loro, e partitomi l'altro giorno più secretamente che io possetti, me ne tornai alla volta di Fiorenze, e intanto era maturato le diavolerie, perché io avevo scritto al mio gran Duca tutta l'occasione che mi aveva traportato a Venezia.

E con la sua solita prudenzia e severità, io lo visitai senza alcuna cerimonia; stato alquanto con la detta severità, di poi piacevolmente mi si volse e mi domandò dove io ero stato.

Al quale io risposi che il cuor mio mai non si era scostato un dito da Sua Eccellenzia illustrissima, se bene per qualche giuste occasioni e' mi era stato di necessità di menare un poco il mio corpo a zonzo.

Allora faccendosi più piacevole, mi cominciò a domandar di Vinezia e così ragionammo un pezzo; poi ultimamente mi disse che io attendessi a lavorare e che io gli finissi il suo Perseo.

Così mi tornai a casa lieto e allegro, e rallegrai la mia famiglia, cioè la mia sorella con le sue sei figliuole, e ripreso l'opere mie, con quanta sollecitudine io potevo le tiravo innanzi.


LXXI.

[Firenze, verso 1547]

[Lo scultore rivale Bandinelli lo insulta durante una disputa davanti al Granduca dandogli del "soddomitaccio"; Cellini ribatte facendo a sorpresa l'apologia dell'amore fa maschi, cosa degna degli dèi].

Questo uomo non potette stare alle mosse d'aver pazienza che io dicessi ancora i gran difetti di Cacco [la scultura di Ercole e Caco, in Piazza della Signoria, NdR]; l'una si era che io dicevo 'l vero, l'altra si era che io lo facevo conoscere chiaramente al Duca e agli altri che erano alla presenzia nostra, che facevano i più gran segni e atti di dimostrazione di maravigliarsi e allora conoscere che io dicevo il verissimo.

A un tratto quest'uomaccio disse: - Ahi cattiva linguaccia, o dove lasci tu 'l mio disegno? -

Io dissi che chi disegnava bene e' non poteva operar mai male - imperò io crederrò che 'l tuo disegno sia come sono le opere -.

Or, veduto quei visi ducali e gli altri, che con gli sguardi e con gli atti lo laceravano, egli si lasciò vincere troppo dalla sua insolenzia, e voltomisi con quel suo bruttissimo visaccio, a un tratto mi disse: - Oh sta' cheto, soddomitaccio -.

Il Duca a quella parola serrò le ciglia malamente inverso di lui, e gli altri serrato le bocche e aggrottato gli occhi inverso di lui.

Io, che mi senti' così scelleratamente offendere, sforzato dal furore, e a un tratto, corsi al rimedio e dissi: - O pazzo, tu esci dei termini: ma Iddio 'l volessi che io sapessi fare una così nobile arte, perché e' si legge ch'e' l'usò Giove con Ganimede in paradiso, e qui in terra e' la usano i maggiori imperatori e i più gran re del mondo. Io sono un basso e umile omicciattolo, il quale né potrei né saprei impacciarmi d'una così mirabil cosa -.

A questo nessuno non potette esser tanto continente che 'l Duca e gli altri levorno un rumore delle maggior risa che immaginar si possa al mondo.

E con tutto che io mi dimostrassi tanto piacevole, sappiate, benigni lettori, che dentro mi scoppiava 'l cuore, considerato che uno, 'l più sporco scellerato che mai nascessi al mondo, fussi tanto ardito, in presenza di un così gran principe, a dirmi una tanta e tale ingiuria; ma sappiate che egli ingiuriò 'l Duca e non me; perché, se io fussi stato fuor di così gran presenza, io l'arei fatto cader morto.

Veduto questo sporco ribaldo goffo che le risa di quei Signori non cessavano, ei cominciò, per divertirgli da tanta sua beffe, a entrare innun nuovo proposito, dicendo: - Questo Benvenuto si va vantando che io gli ho promesso un marmo -.

A queste parole io subito dissi: - Come! non m'hai tu mandato a dire per Francesco di Matteo fabbro, tuo garzone, che se io voglio lavorar di marmo, che tu mi vuoi donare un marmo? E io l'ho accettato, e vo' lo -.

Allora ei disse: - Oh fa' conto di noll'aver mai -.

Subito io, che ero ripieno di rabbia per le ingiuste ingiurie dettemi in prima, smarrito dalla ragione e accecato della presenza del Duca, con gran furore dissi: - Io ti dico espresso che se tu non mi mandi il marmo insino accasa, cèrcati di un altro mondo, perché in questo io ti sgonfierò a ogni modo -.

Subito avvedutomi che io ero alla presenza d'un sì gran Duca, umilmente mi volsi a Sua Eccellenzia, e dissi: - Signor mio, un pazzo ne fa cento; le pazzie di questo omo mi avevano fatto smarrire la gloria di Vostra Eccellenzia illustrissima e me stesso; sì che perdonatemi -.

Allora il Duca disse al Bandinello: - È egli 'l vero che tu gli abbia promesso 'l marmo? -

Il detto Bandinello disse che gli era il vero.

Il Duca mi disse: - Va all'Opera, e to'tene uno a tuo modo -.

Io dissi che ei me l'aveva promesso di mandarmelo a casa.

Le parole furno terribile; e io innaltro modo nollo volevo.

La mattina seguente e' mi fu portato un marmo accasa; il quale io dimandai chi me lo mandava: e' dissono che e' me lo mandava 'l Bandinello, e che quello si era 'l marmo che lui mi aveva promesso.


LXXII.

[Bandinelli, costretto a regalare un pezzo di marmo a Cellini, gliene manda uno difettoso e crepato. Da esso Cellini trae l'Apollo e Giacinto (opera di tema omosessuale!) che è oggi al Museo nazionale del Bargello. Non soddisfatto fa nello stesso tempo altre due opere omosessuali (anch'esse oggi al Bargello): un Ganimede e l'aquila e un Narciso!].

Subito io me lo feci portare in bottega e cominciai a scarpellarlo; e in mentre che io lavoravo, io facevo il modello: e gli era tanta la voglia che io avevo di lavorare di marmo, che io non potevo aspettare di risolvermi a fare un modello con quel giudizio che si aspetta, a tale arte.

E perché io lo sentivo tutto crocchiare, io mi penti' più volte di averlo mai cominciato allavorare: pure ne cavai quel che io potetti, che è l'Appollo e Iacinto, che ancora si vede imprefetto in bottega mia.

E in mentre che io lo lavoravo, il Duca veniva a casa mia, e molte volte mi disse: - Lascia stare un poco 'l bronzo e lavora un poco di marmo, che io ti vegga -.

Subito io pigliavo i ferri da marmo, e lavoravo via sicuramente. Il Duca mi domandava del modello che io avevo fatto per il detto marmo; al quale io dissi: - Signore, questo marmo si è tutto rotto, ma assuo dispetto io ne caverò qualcosa; imperò io non mi sono potuto risolvere al modello, ma io andrò così faccendo 'l meglio che io potrò -.

Con molta prestezza mi fece venire 'l Duca un pezzo di marmo greco, di Roma, acciò che io restaurassi il suo Ganimede antico, qual fu causa della ditta quistione connil Bandinello.

Venuto che fu 'l marmo greco, io considerai che gli era peccato a farne pezzi per farne la testa e le braccia dell'altre cose per il Ganimede; e mi providdi d'altro marmo, e a quel pezzo di marmo greco feci un piccol modellino di cera, al quale posi nome Narciso.

E perché questo marmo aveva dua buchi che andavano affondo più di un quarto di braccio e larghi dua buone dita, per questo feci l'attitudine che si vede, per difendermi da quei buchi, di modo che io gli avevo cavati della mia figura. Ma quelle tante decine d'anni che v'era piovuto sù, perché e' restava sempre quei buchi pieni d'acqua, la detta aveva penetrato tanto che il detto marmo si era debilitato; e come marcio in quella parte del buco di sopra; e si dimostrò dappoi che e' venne quella gran piena d'acqua d'Arno, la quale alzò in bottega mia più d'un braccio e mezzo. E perché il detto Narciso era posato in su un quadro di legno, la detta acqua gli fece dar la volta, per la quale e' si roppe in su le poppe, e io lo rappiccai; e perché e non si vedessi quel fesso della appiccatura, io gli feci quella grillanda de' fiori che si vede che gli ha in sul petto; e me l'andavo finendo accerte ore innanzi dì, o sì veramente il giorno delle feste, solo per non perdere tempo dalla mia opera del Perseo.



L'Archivio di Storia Gay e Lesbica è a cura di Giovanni Dall'Orto

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