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IL DIAVOLO NEI LOCALI
di Giovanni Dall'Orto La questione se bisogna o no stracciarsi le vesti per la "commercializzazione" nel mondo gay mi pare mal posta. Soprattutto quando viene posta, come succede sempre più spesso, da gruppi gay che poi gestiscono bar, discoteche, serate e seratine rigorosamente di "autofinanziamento", che almeno in un caso noto a tutti "autofinanziano" con un giro d'affari che supera il miliardo di lire all'anno. Quando si parla della "commercializzazione" del mondo gay italiano si trascura sempre di osservare il dato più macroscopico, cioè che l'Italia è unica in Europa per un fenomeno: la gran parte dei locali è affiliata come circolo privato a un'associazione politica: l'Arcigay. Se ciò avviene qui e non altrove, un motivo ci deve essere. A ciò va aggiunto un altro elemento importante: permettendo di aprire locali come circoli privati, l'associazionismo (Arci incluso, ma non solo) ha permesso di aggirare una delle grandi strozzature che hanno da sempre ostacolato il commercio in Italia: il racket delle licenze pubbliche. Concesse col contagocce, a volte non concesse affatto, in certi casi per motivazioni ridicole come quella di Bergamo che durante la guerra fece voto alla Madonna di non permettere l'apertura di discoteche se la città fosse stata risparmiata dai bombardamenti (come fu). Ciò farà forse ridere, ma l'Italia è anche questo: un Paese in cui non si rilasciano licenze commerciali con la scusa d'un fioretto alla Madonna. Non avendo invece bisogno di licenze commerciali, i circoli privati hanno potuto aprire laddove mai e poi mai le autorità avrebbero permesso la nascita d'un locale per omosessuali (inclusa Bergamo, che oggi è una "capitale gay"). Come se tutto ciò non bastasse, va aggiunto che in Italia manca ancora, e temo mancherà ancora per un bel po', un minimo di persone gay fiere di essere quel che sono, visibili, aperte e convinte dell'importanza di sostenere associazioni per la difesa dei loro diritti. Quanto ciò sia vero lo hanno dimostrato proprio i gruppi usciti due o tre anni fa dall'Arcigay accusandola di eccessiva commercializzazione, e che oggi si autofinanziano gestendo iniziative commerciali: né più, né meno dei circoli Arcigay. Ciò rende palese come qui non siamo di fronte a possibili scelte diverse. Ce n'è una sola: adattarsi o morire. A meno di ottenere un finanziamento pubblico, che però impone condizionamenti di solito superiori a quelli necessari per gestire un'attività commerciale. Tutto a posto, quindi? Non ho detto questo. Per esempio, non tutto va bene nel mondo dei commercianti italiani, alcuni dei quali non sono ancora pronti a un'epoca in cui la concorrenza fra locali gay si fa sempre più agguerrita. Qualcuno rimpiange infatti il bel tempo andato in cui ogni città aveva uno, massimo due locali, e si comporta di conseguenza (come nel caso trattato da Santandrea nel numero di ottobre di Pride&Guide). Fortunatamente, la maggioranza dei gestori ha sfoderato creatività, ingegno e... investimenti per accontentare una clientela che oggi può, se scontenta, scegliere di rivolgersi altrove. Sono finiti i tempi in cui due tavolini e un muro scrostato andavano comunque bene. E qualcuno mi spieghi per favore perché mai, come gay "militante", io dovrei stracciarmi le vesti per la disperazione per questo fatto. Non tutto mi quadra neppure nella risposta di Dartenuc a Santandrea apparsa sullo stesso numero di Pride&Guide, specie laddove ci presenta la trasformazione dei locali gay in locali "misti" come il futuro che, ci piaccia o no, ci aspetta.
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