I luoghi di Pino, confinato politico omosessuale nel 1939
Ho incontrato Pino, così lo voglio chiamare, ormai dieci anni fa.
Per me era la prima volta a Catania: arrivavo da Roma pieno di date, volti incontrati all'Archivio Centrale di Stato. Stavo lavorando alla mia tesi di laurea sul confino politico per pederastia (questo il termine usato dalla maggior parte dei questori e dei prefetti) durante il ventennio fascista. Vicenda complessa, contraddittoria dal punto di vista amministrativo, che aveva avuto il suo apice repressivo nel 1939-40, all'indomani della promulgazione delle leggi razziali. Come in Germania anche in Italia si era aperta la caccia a chi con il Regime non doveva avere più niente a che fare. Ebrei, testimoni di Geova, zingari e appunto, pederasti.
Nei confronti di questi ultimi si pensò di reprimere attraverso lo strumento del confino di polizia, il più adatto allo scopo: arresto, niente processo, condanna da parte di una Commissione provinciale. Tutto poteva accadere nel più assoluto silenzio, senza pubblicità, senza far conoscere che la degenerazione era presente anche nell'italietta fascista. In genere venivano inflitti 5 anni di residenza obbligatoria, in una colonia di confino, un'isola, o uno sperduto paese di montagna. Fuori appunto, lontano dal mondo.
Nei confronti dei pederasti, mancando precise indicazioni a livello centrale, ogni questura si comportò in maniera diversa.
Il questore di Catania fu uno dei più ligi al dovere. Per questo decisi che avrei lavorato soprattutto qui.
Ero arrivato a Catania con nomi, date di nascita, memoria dei fatti, letti nelle decine di fascicoli personali. Avevo visto le foto di ragazzi spaventati, di faccia e di profilo, molti ventenni, qualche anziano. A distanza di 50 anni, volevo incontrarne qualcuno, per ricostruire sì la loro storia, ma anche per scoprire quello che i documenti non mi avevano raccontato. La storia della repressione dei pederasti la stavo conoscendo dai documenti ufficiali. La storia non detta dei ragazzi catanesi, la loro vita, quello che il rapporto di polizia non raccontava, l'avrei saputa dai racconti dei protagonisti.
I documenti parlavano di 44 arrestati nei primi mesi del '39. La maggior parte sono poveri, 14 lire al giorno per i più fortunati; hanno frequentato poco la scuola, alcuni sono totalmente analfabeti; contadini, barbieri, molti sarti. Un'età media intorno ai trenta anni. Tutti celibi: solo due sono sposati. Dovevo trovare qualcuno ancora in vita, che mi parlasse dell'amore, dei luoghi di incontro, della paura, della rassegnazione o della rabbia, se c'era. Che soprattutto mi parlasse di una Catania nascosta, vissuta da pochi, che la polizia attraverso quegli arresti, aveva cercato di cancellare.
Di questa Catania, il questore dava qualche notizia. Quello che segue è parte del documento che accompagnava la richiesta del confino per ogni arrestato. "La piaga della pederastia in questo capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi perché giovani finora insospettati, ora risultano presi da tale forma di degenerazione sessuale sia passiva che attiva che molto spesso procura loro anche mali venerei. In passato molto raramente si notava che un pederasta frequentasse caffè e sale da ballo o andasse in giro per le vie più affollate; più raro ancora che lo accompagnassero pubblicamente giovani amanti e avventori (...) Oggi si nota che anche molto spontanee e naturali ripugnanze sono superate e si deve constatare con tristezza che vari caffè, sale da ballo, ritrovi balneari o di montagna, secondo le epoche accolgono tali ammalati, e che giovani di tutte le classi sociali ricercano pubblicamente la loro compagnia e preferiscono i loro amori snervandosi e abbrutendosi. Questo dilagare di degenerazione in questa Città ha richiamato lattenzione della locale questura che è intervenuta a stroncare o per lo meno ad arginare tale grave aberrazione sessuale che offende la morale e che è esiziale alla sanità e al miglioramento della razza, ma purtroppo i mezzi adoperati si sono mostrati insufficienti. (...). I più abbienti mettono su quartini con gusto civettuolo ed invitante, ricorrono ai più disparati espedienti non escluso il furto, per procurarsi i mezzi e mettere anchessi una casa ospitale. Tutti poi per vanità, per piccole gelosie, menano vanto delle conquiste fatte che tentano mantenere a prezzo di qualsiasi sacrificio. I giovani dallaltro (quando non espressamente invitati) sono sospinti in quelle case, alcuni dalla curiosità, altri dallinsidioso desiderio di fumarvi gratuitamente una sigaretta, e tutti, dopo aver visto, hanno voluto poi provare sicché vi sono sempre ritornati. (...) Ritengo pertanto indispensabile dellinteresse del buon costume e della sanità della razza, intervenire con provvedimenti più energici, perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre, nel silenzio della legge, il provvedimento del Confino di polizia da adottarsi nei confronti dei più ostinati fra cui segnalo lindividuo in oggetto segnato...."
La difesa della razza, in una città piena di pederasti e di loro ammiratori; feste in case private e invasione di locali pubblici; la playa
La città è infetta, lo dice il questore: bisogna arginare e sconfiggere il male.
L'incontro con Pino non fu semplice. Avvenne dopo una telefonata, io al centro Sip, con in mano un elenco telefonico da ore. "Pronto". "Pronto". "Lei è Pino..." "Si, chi è lei?". Dopo decine di tentativi, avevo trovato uno dei ragazzi. Gli dissi tutto, chi ero e cosa cercavo. Silenzio, balbettava: "Ma lei come sa...?". Lo rassicuravo.
Dopo 50 anni, lo riportavo indietro. Accettò un incontro, mi disse di andare a casa sua il giorno dopo: lo ricordo che mi aspettava sul pianerottolo di un secondo piano, in una strada parallela alla via Etnea. Era con un suo amico che aveva chiamato per farsi compagnia e per paura che io avessi male intenzioni. Indossava pantofole e una giacca da camera avana. Lo ricordo tondo e rosa, pochi capelli e bianchi, ma pettinati. Le mani curate, con le unghie lucide. Scrutavo il suo viso di ottantenne per cercare le tracce del giovane che avevo conosciuto. Ci sedemmo in salotto.
"...Sono passati anni, sono passati... cosa vuoi che ricordi... Ci divertivamo, si usciva per via Etnea e poi sai, noi eravamo i primi, dici di che?... Eh, di jarrusi, di noi così che si andava per strada".
I primi, eravamo i primi. Mi ha fatto sempre impressione, al ricordo, che Pino parlasse di loro stessi come dei primi, come se altri non ce ne fossero stati, o forse perché altri veramente non c'erano stati, se è vero che la storia diventa Storia se si racconta, se no si dimentica, nessuno la ricorda. Un pederasta non ha dietro la Storia di altri pederasti, perché nessuno l'ha scritta o raccontata. Così uno si sente il primo, spesso l'unico.
Catania del mare, mi racconta Pino, dei Giardini di Naxos e di Taormina. Catania del Vulcano, del porto.
Catania di luoghi più o meno nascosti, che si conoscono, che gli jarrusi e i loro amanti almeno conoscono e frequentano.
Fra tutti gli jarrusi Pino ricorda Salvatore, che a Catania "era uno dei più famosi". Ma famoso, famoso, mi dice ridendo.
Di lui mi hanno mostrato una foto degli anni quaranta, vestito da spagnola, prima di uno degli spettacoli che spesso si facevano nei quartieri.
Prima dellarresto del 1939 era stato fermato più volte: già a sedici anni e poi ancora, nei periodi successivi. Viveva solo, aveva lasciato la famiglia, uno dei pochi, e si arrangiava come cameriere.
Litigioso, chiassoso. Insolente e prepotente. Ma furbo, sembra simpatico. Nel rapporto del Questore di lui si legge "...costituisce uno dei più sfacciati, dei più ostinati al vizio. (...) Attaccabrighe, viene per un nonnulla alle prese con gli altri pederasti. È di pochi mesi addietro una chiassosa e spassosa per quanto pietosa scena a base di pugni e di contumelie a cui diede luogo con laltro pederasta G. A., di ignoti. Nelloccasione venne ferito con una pietra al capo, ma perdonò la sorella, ed alla Polizia dichiarò che non intendeva querelarla. Preferisce i giovani ma non disdegna gli attempati, pur di superare nel numero delle avventure i colleghi".
Pino se lo ricorda ancora, in qualche serata nella sala da ballo di piazza S. Antonio.
Delle sale da ballo raccontano sia Pino che alcuni rapporti di polizia. A me sembrava curioso, quando lo lessi, in archivio. Sembrava curioso che ci fossero sale da ballo per soli maschi. Poi ripensai ad alcune foto o a film, dove uomini ballavano insieme, in sale o allaperto. La cosa doveva essere meno insolita di quanto pensassi.
Le sale da ballo erano frequentate da soli maschi, e quindi in alcune di queste cera la possibilità dellincontro omosessuale. La polizia lo sapeva e aveva tollerato, evidentemente fino al 1938, quando venne imposta la chiusura alla maggior parte. Si salvò quella di piazza S. Antonio, che resistette fino al maggio del 1939, pochi mesi dopo le grandi retate.
A piazza S. Antonio ci si arriva da una piccola traversa di Corso Garibaldi, non distante dalla piazza del Duomo. È una piccola piazza quadrata, quasi un cortile, con al centro una panchina ed un albero. Una grande via parte dalla piazza e la collega a via del Plebiscito.
La sala da ballo sembra si trovasse allinterno di una chiesa sconsacrata. Una piccola gradinata porta allunica entrata. Ora, mi hanno detto, dovrebbe essere una sala giochi.
"
In quegli anni si andava nella sale da ballo. Cera quella di piazza S. Antonio. Era una sala per soli maschi... sa, non è che ci si andava tanto composti, e così ogni tanto veniva la polizia.
Io non lo potevo fare per la famiglia. Ci andavo, sì però più modesto, capito? Vestivo come uscivo di casa, invece alcuni vivevano fuori dalla famiglia, perciò ci andavano tutti truccati, magari si mettevano la canottiera di sotto, sopra la camicia, sa, periodo estivo poi se la levavano e allora ballavano. Così ogni tanto la polizia interveniva.
La sala era aperta tutte le sere. In questi posti, sai, volevano gli jarrusi, noi diciamo così le checche, perché facevano richiamo agli uomini e ballavano. Era il padrone del locale che voleva! E magari ti dava i soldi, ora mezza lira, ora 30 centesimi, contavano allora. A me lo diceva, ma io accettavo relativo; anche i ragazzi che erano lì magari volevano pagare, e cera chi di questo ci viveva. Quando poi ci arrestarono, i due che ci interrogavano dissero che ormai eravamo diventati come le puttane che ci facevamo pagare.
Alcuni pagavano, ma il tuo ragazzo no... Il ragazzo magari ti faceva una cosa, un regalo
".
Non cera biglietto di ingresso; pagavi il ballo, e ogni ballo era 20 centesimi. La sala per soli maschi non era così insolita né necessariamente omosessuale. Semplicemente spesso le donne di casa non uscivano. Specie la sera, specie nei locali. Così in alcune di queste sale si concretizza la possibilità dellamore e del sesso omosessuale.
I maschi ci andavano, magari dopo aver lasciato a casa le mogli o fidanzate. Gli jarrusi sapevano che lì si poteva trovare. Chi cercava il cliente, chi lamante, chi il ragazzo più fisso. Ma anche un luogo dove si era riconosciuti, almeno fra tutti i presenti.
Salvatore della sala era uno dei più assidui frequentatori. Lui sì, ci andava truccato e vestito stravagante. Aveva poco più di ventanni.
Pino se lo ricorda, e da lui prendeva le distanze. Aveva ormai intorno ai trentanni, lavorava come sarto. Era di famiglia non povera, ma neanche una di quelle in vista. Il padre era morto da qualche anno, e viveva con la madre e le sorelle, già fidanzate. Di lui, per sé, non soffriva: il problema era con la famiglia, coi cognati; uno, una volta, era anche andato a sorprenderlo nella sala da ballo e che un giorno glielo disse "quando lho saputo mi è dispiaciuto, sai Pino?" e lui deviava, diceva "di che?". Si manteneva modesto, come mi ha detto, diverso dagli altri e frequentava meno la strada: case private o feste e sale fuori città, Taormina per esempio, in estate.
Gli era capitato più volte di andare alle feste o alle cene a casa del Ragioniere R. o della "Bastarduna" che aveva parecchi soldi. La chiamavano "a Bastarduna" perché coi soldi faceva quello che voleva. "A Bastarduna" non era nato a Catania, ma arrivava da un paese vicino. Allinizio del '36, a 26 anni, aveva preso i soldi che gli spettavano dalla morte del padre e se nera venuto a Catania, a fare il ballerino negli spettacoli di rivista. A curare le terre, aveva lasciato la madre e due fratelli, dirigenti questi ultimi delle locali associazioni fasciste. Aveva preso una casa da solo, in un bel quartiere di Catania.
Le loro case erano frequentate. Il rag. R. abitava al centro, non lontano dalla Prefettura e aveva al suo servizio come cuoca "'a signora Smeraldi", ormai sessantenne che viveva grazie al lavoro dal ragioniere. Aiutavano anche altri nella casa, poi finiti tutti in camera di sicurezza. Spesso anche Pino era in quella casa, tutti con i rispettivi amanti. Ce n'era uno - Pino fa il nome - pazzo per Carlo, uomo di mare.
Alcuni più giovani, intorno ai vent'anni, del quartiere fra il porto e via del Plebiscito, si incontravano all'arveru rossu.
Questarveru rossu, lalbero grosso, era un posto di ritrovo: era vicino al duomo, era chiamato lalbero grosso perché era vecchio di duecento anni: dietro il duomo, in una piazza che ora si chiama piazza Borsellino, e prima piazza Alcalà. Prima era tutto mare, tutto mare... Sotto i ponti della ferrovia cera il mare, che venivano le barche di Augusta, di Siracusa e portavano peperoni, melanzane, cetrioli: portavano frutta e verdura da vendere a Catania... alla sera si vedevano lì, in questa piazza che cera questalbero vecchio. Ci si vedeva lì e cera chi trovava il maschio e chi anche faceva marchette...
Questi dellalbero grosso erano ragazzi giovani, al massimo 23 anni, i nuovi: si stava nella piazza vicino alla spiaggia, da soli o in due o tre, e si aspettava. Una sigaretta, come ti chiami...
Si facevano corteggiare e desiderare. Per arrotondare, ci scappava anche la marchetta.
Altre sere, anche per loro, per i piccoli, era la sala da ballo.
Destate, a consumare si andava alla playa, o in qualche cabina lasciata aperta.
Non cera il fidanzato, cera lamante. Maschio, mi dice Pino "che io il maschio non lo so proprio fare, sono tutta donna". Che di giorno aveva la sua vita e la fidanzata. Magari pure sposato, era. E che a volte, per loro, perdeva la testa.
Lestate era diverso, più divertente. A Taormina per esempio. Lì Pino si scatenava e si lasciava andare anche nel vestire. Si agghindava tutta: vestito, scarpe con le chitarre laterali, calzoni stretti, gilet di lamé, sciarpe lunghe, camicie di chiffon.. Taormina era sempre stata rinomata: sale da ballo, che magari aprivano e chiudevano, perché finiva, per gelosie, a "sparatine e ammazzatine" fra uomini, per la donna o lo jarruso.
O a Sant'Agata, durante la processione che viene a ridosso del carnevale, o a carnevale proprio, dove si girava vestiti da donna senza neanche troppi problemi. Certo sempre nei limiti, che a uno anni addietro lo avevano arrestato ad Aci Reale insieme ad altri che avevano esagerato, e dato che erano già nell'occhio della polizia, si erano beccati i due anni di ammonizione.
Poi successe un fatto grave: il ragioniere, una sera di dicembre del '37, lo trovarono morto ammazzato.
Lappartamento era sottosopra, avevano anche rubato qualcosa. Il delitto era avvenuto fra le otto e le nove di sera. Se ne era accorta la portiera, che subito aveva chiamato la polizia.
Lo trovarono in salotto, in terra, col cranio sfondato. Ricorda Pino: "Ora, i primi tempi si diceva che era stato un carabiniere perché ci aveva dato una malattia, poi dicevano uno dei suoi amici perché era geloso, non lo so, o caveva rubato. Sai, qua sono perfidi e questo era: che una cosa dice uno e una cosa dice un altro e non si capiva più niente"
In quel dicembre del 1937, la polizia comincia ad indagare meglio, comincia a conoscere un mondo di cui intuiva lesistenza, ma forse non immaginava così vasto e radicato nella struttura sociale della città. Partono le indagini per scoprire lassassino del ragioniere, e tanti dei suoi amici sfilano in questura. È forse linizio.
Il 1938 , come si sa, è lanno in cui si cambia pagina.
Pino e gli altri, dopo essere stati un po più ritirati per via dellomicidio, quellestate ripartono. Chissà se hanno idea del pericolo. Chissà se guardano i giornali e si rendono conto di quello che succede.
Quando poi li arresteranno, sembrano tutti presi alla sprovvista. Nessuno immaginava, nessuno poteva sapere.
E anche se sospettavi larresto che si poteva fare? Si poteva scappare?
Mentre la polizia li osserva da lontano, loro continuano con lo chiffon, i balli e gli appuntamenti sotto le poche luci di piazza Alcalà, nei pressi dellàrveru rossu.
La storia successiva l'ho raccontata e la racconterò ancora altrove. In breve i fatti. I primi venti vengono arrestati di notte, a metà gennaio. Trasferiti in questura, in pochi giorni sono interrogati tutti. Poi la visita medica, a gambe divaricate, per far vedere l'ano, se "sfiancato", se con ragadi o emorroidi, se fatto ad imbuto, deformato dal pene accolto. È l'unica preoccupazione della polizia. L'unica prova di colpevolezza. La passività dell'atto sessuale, è da colpire. Gli amanti dei pederasti, i maschi, gli attivi, non sono punibili. Perché non importa dove dirigono la propria attività: maschi rimangono.
A metà febbraio, altri venti arresti. A giugno si ritrovano tutti a S. Domino delle Tremiti, per scontare 5 anni di Confino. Insieme ad un'altra trentina di pederasti da tutta Italia.
Nel giugno del 1940 l'Italia entra in guerra: i cameroni di S. Domino debbono essere lasciati liberi per i pericolosi traditori antifascisti.
I Catanesi tornano a casa, con due anni di ammonizione, una sorta di arresto domiciliare.
Pino ricorda il ritorno: "Non potevamo uscire normalmente, eravamo controllati... Ci diedero due anni di ammonizione e ogni tanto si doveva andare in questura a firmare... neanche gli altri vidi più, anche per questa cosa della guerra. Poi madri, padri... non si poteva fare più quello che si faceva prima capito? Dovevamo stare più attenti. Anche perché ci dicevano che se ci riprendevano non ci rilasciavano più. Sa, la paura era enorme...".
Di Pino ho il ricordo della sua risata e dei giochi, mentre parlava, con il cane, un bastardino rossiccio, in continuo movimento.
È morto due anni dopo la mia prima visita.
Aveva cambiato casa, viveva solo, in una casa più piccola ma in una via centrale, vicino al Duomo, accudito da alcuni vicini. Una casa, la nuova, piena da scoppiare. Aveva portato in un piccolo monolocale tutto quello che aveva in tre stanze, cucina e bagno. Ci aveva portato tutti i suoi ottanta anni.
Un suo amico mi ha raccontato che negli ultimi mesi non voleva più uscire. Lo chiamava ogni tanto al telefono per delle commissioni, o per farsi aiutare a curare i piedi, tenere in ordine le unghie.
Lui lo vedeva sempre più pallido, affaticato. L'ha dovuto pregare e minacciare per farlo andare in ospedale, per un controllo. Ma in ospedale si accorsero che il tumore era in uno stadio avanzato.
L'ha ucciso in pochi giorni.