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L'omosessualità nella poesia volgare italiana fino al tempo di dante. Appunti

di Giovanni Dall'Orto

tratto da "Sodoma" III 3 - primavera-estate 1986, pp. 13-37

NOTE

Nota dell'autore: il saggio è stato rivisto prima di essere messo online, nel febbraio 2000. Ho fatto qualche aggiunta e correzione, ma non ne ho aggiornato la bibliografia (che resta sostanzialmente quella del 1985) perché per farlo avrei dovuto riscrivere il saggio, se non altro per aggiungere il nuovo materiale poetico che ho scoperto nel frattempo.

Ho quindi preferito lasciare le cose come stavano.

1) Così fa ad esempio John Boswell nel suo Christianity, social tolerance and homosexuality, University of Chicago Press, Chicago 1980: molte delle sue "sicure prove" dell'omosessualità di questo o quell'autore non escono di fatto dalle banali convenzioni epistolari o letterarie dell'epoca. Sulla questione si vedano ad esempio la recensione di Elio Martinelli, Cristianesimo e omosessualità, "Paideia", XXXVII 1982, pp. 21-30, e soprattutto le critiche mosse nell'opuscolo della Gay Academic Union intitolato: Homosexuality, intolerance and Christianity, GAU, New York 1985 (seconda edizione).

2) Alcuni contributi importanti per dirimere la questione sono già apparsi. Si veda ad esempio: Gerard Herman, The "sin against nature" and its echoes in medieval French literature, "Annuale mediaevale", XVII 1976, pp. 70-87; Jefim Schirmann, The ephebe in medieval Hebrew poetry, "Sefaraad", XV 1955, pp. 55-68; Guglielmo Volpi, Il "bel giovine" nella letteratura volgare del sec. XV, Tedeschi, Verona 1891 (non conclusivo e incentrato sul Quattrocento, ma molto utile); Jean Leclercq, L'amitié dans les lettres au Moyen Age, "Revue du Moyen Age latin", I 1945, pp. 391-410 (molto importante per capire le convenzioni epistolari).

Un essenziale contributo recente ci viene dall'introduzione di Thomas Stehling all'antologia da lui curata: Medieval latin poems of male love and friendship, Garland, New York and London 1984 (che purtroppo, per eccesso di venerazione, riprende anche alcuni errori di Boswell).

3) Per il testo latino, con traduzione a fronte, si veda: Antonio Viscardi (a cura di), Le origini: testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, pp. 242-43. Della composizione tratta anche Ernst R. Curtius nel suo: Europaische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Francke, Bern 1948, che contiene anche interessanti considerazioni sul concetto di Natura e "contro natura" nel medioevo.

4) Il testo qui riportato è quello dato in: Gianfranco Contini (a cura di) Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano e Napoli 1970, vol. 1, p. 587. Non si tratta comunque del primo documento in volgare in assoluto: già nei Sermones subalpini (fine sec. XII - inizio sec. XIII) si trova un accenno alla sodomia paradossalmente confusa con la masturbazione ("Jnmundus si est apelà quel qui se deleita en maneer so membre e la li giter semenza. E en altra part los apela molles, zo sun sodomite".) Si veda: Concordanza linguistica dei "sermoni subalpini", Centro studi piemontesi, Torino 1974, p. XXXIII.

5) Si veda per esempio: Matteo Bandello, Le novelle, Laterza, Bari 1911 vol. I, p. 95: "Ma fra gli altri diffetti che in lui abbondavano, questo fra gli altri era uno dei solenni… che quello era il sommo suo diletto d'andare in zoccoli per l'asciutto".

Si veda anche: Francesco Berni (sic) Opere burlesche, Usecht al Reno (ma Milano) 1760, vol. 11, p. 231 ("In lode delle mele", di Andrea Lori).

6) Ad esempio nella versione pubblicata in: Ezio Levi, Poeti antichi lombardi, Cogliati, Milano 1921, p. 83.

7) Silvio Avalle D'Arco, Ai luoghi di delizia pieni, Ricciardi, Milano e Napoli 1977, pp. 87-106 e 191-197. Citazione dalle pp. 191-193.

8) Ibidem, pp. 194-197. Anche in: Gianfranco Contini, Op. cit., pp. 385-387.

9) Pietro Alighieri, Commentarium super Dantis ipsius genitoris comoediam, Piatti, Firenze 1845, pp. 178-79.

10) L'ambiguità di simile pratica è stata però messa in luce dal saggio di Christiane Marchello-Nizia, Amour courtois, société masculine et figures du pouvoir, "Annales E.S.C.", XXXVI 1981, II, pp. 969-982, che sostiene che nella letteratura cortese dei secc. XII-XIII, "la femme n'est que la mediatrice d'une relation instaurée entre des hommes… Dans cette hypothèse, la dame peut être interpretée comme la métonymie du seigneur son époux" (p. 980).

11) Si veda ad esempio Niccolò Cieco (notizie fra 1428 e 1440), che alla partenza del conte Francesco Sforza da Firenze nel 1434 gli indirizzò il sonetto: "Signor, membrando l'effettivo amore". Testo in: Antonio Lanza, Lirici toscani del Quattrocento, Bulzoni, Roma 1973, vol. 2, pp. 207-208.

12) Brunetto Latini, Tesoretto. In: Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento, Op. cit., tomo 2, p. 274, versi 2859-2864.

13) Iacopone Da Todi, Laude, Laterza, Bari 1974, p. 193.

14) Anonimo Genovese, Poesie, Ed. dell'Ateneo, Roma 1970, poesia n. 82.

15) La prima attestazione di esecuzione capitale per sodomia in Europa risale al 1277: Annales Basileenses, in: Monumenta Germaniae Historica, scriptorum tomus XVII, p. 201. Per l'Italia la prima attestazione risale per quanto ne sappia io, al 1293, e sta nella Cronaca fiorentina di anonimo, pubblicata in: Alfredo Schiaffini (a cura di), Testi fiorentini del Duecento e dei primi del Trecento, Sansoni, Firenze 1926, p. 139.

16) Maurizio Vitale (a cura di), Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, UTET, Torino 1956, vol. 1, p. 120; ed anche Mario Marti, Poeti giocosi del tempo di Dante, Rizzoli, Milano 1956, p. 33.

17) Maurizio Vitale, Op. cit., pp. 207-208; ed anche Mario Marti, Op. cit., p. 97.

18) Ivi.

19) In: "Il propugnatore", X 1877, parte 1, pp. 138-39. Successivamente alla pubblicazione di questo saggio è poi apparsa in: Guido Cavalcanti, Rime, Einaudi, Torino 1986, p. 178. Faccio comunque riferimento alla prima edizione perché essa ha il merito di non separare i due sonetti della tenzone, come fa invece l'edizione più recente.

20) Ivi. Poi in: Guido Cavalcanti, Rime, Einaudi, Torino 1986, p. 182.

È abbastanza divertente notare che il solito Anonimo (che è il più prolifico saggista che esista, quando si tratta di omosessualità, specie poi se si tratta di criticare gli altri) ha "coraggiosamente" criticato la mia inclusione della tenzone in questo saggio: Yorik (sic), Guido, quando dicesti pasturella. Sull'omosessualità di Guido Cavalcanti, "Sodoma", VI 5, primavera-estate 1993, pp. 23-25. Nello striminzito saggetto si afferma unicamente, dopo aver riportato il testo della tenzone, che malissimo fanno coloro che, come me (sic), da essa inferiscono l'omosessualità del Cavalcanti. Il punto è che io non ho mai sostenuto una bestiata del genere, limitandomi a riferire che Lapo, e non io, l'ha insinuata, specificando peraltro che la cosa aveva il carattere di burla fra parenti.

La delazione anonima di Yorik mostra da un lato quanto il tema dell'omosessualità accechi sistematicamente gli studiosi o sedicenti tali, facendo loro leggere tutt'altro da ciò che si è scritto; dall'altro esemplifica in che modo certa gente abbia fatto cosiddetta storia dell'omosessualità fino ad oggi: per loro ogni pettegolezzo diventa "prova" di omosessualità, così come ogni assenza di pettegolezzi costituisce "prova" di eterosessualità.

Non appartengo a questa "scuola" e tanto basti; quanto a Yorik, impari a leggere e scrivere, prima di criticare. Credo sia il minimo che si possa pretendere.

21) Mario Marti, Op. cit., p. 299. Queste tre righe mostrano ottimamente come gli antichi documenti possano avere, come le antiche città mesopotamiche, diversi "strati", tutti da analizzare. La gustosa metafora per cui il sodomita è paragonato all'orco ha infatti un parallelo in un analogo uso di lupo mannaro, attestato in un processo per insulti e rissa, sempre a Siena, nel 1343. Mentre passava un certo Giovanni Buoni, tre contadini si misero a gridare: "Al lupo, al lupo delli garzoni!" (Salvatore Bongi, Ingiurie, improperi e contumelie, "Il propugnatore", III 1890, p. 88). L'allusione si capisce meglio quando si sa che secondo la credenza popolare, il lupo mannaro si nutriva esclusivamente di "garzoni". Anche il parallelo con la "gatta" è allusivo, e fa riferimento alla dimensione "notturna" della vita del sodomita, che schivando le ronde si aggirava per la città vuota alla ricerca di amori, proprio come un gattaccio randagio. Più oltre vedremo che in una tenzone burlesca Attaviano accuserà Neri Moscoli di avere gli occhi della gatta, ma anche in un sonetto inedito scritto a Venezia nel XVI secolo ritroviamo la stessa metafora: Sù gatti, reduseve in Carampane, / lassé da banda el sesso masculin... / forse che manca al mondo le puttane / che serve volentiera del monin?" (Bibl. nazionale Marciana, Venezia, Ms. it. cl. 9 n. 217-7061. Devo la segnalazione e la trascrizione di questo inedito alla cortesia del Prof. Gianni Scarabello).

Infine, a glossa dell'uso di poppare che è nel sonetto, si veda il famoso epitaffio scritto dal Grazzini: "Qui giace il cavalier del poppar pazzo / che munse in vita i cazzi fiorentini / or n'è beffato in cíel da' cherubini / perché gli han un bel viso e non han cazzo", (Antonfrancesco Grazzini, Le rime burlesche, Sansoni, Firenze 1882, p. 639).

22) Mario Marti, Op. cit., p. 293.

23) Ivi.

24) Ivi.

25) Ibidem, p. 240.

26) Ivi.

27) Ibidem, p. 241.

28) Ibidem, p. 242.

29) Ivi.

30) Ibidem, p. 243. Per dovere di cronaca va detto che sia i sonetti dell'"Anonimo uno" che quelli dell'"Anonimo due" erano stati in passato attribuiti all'Angiolieri. Gli studi più recenti non confermano questa attribuzione, che non ha riscontro nei manoscritti (in cui i quattro sonetti appaiono adespoti) od in ragioni stilistiche. Antonio Lanza (Cecco Angiolieri, Rime, a cura di Antonio Lanza, Archivio Izzi, Roma 1990, che non ho potuto consultare di persona) propone peraltro di attribuirli tutti e quattro a Muscia da Siena (vedi oltre).

31) Non citerò in questo paragrafo la nota composizione "Quando Min Zeppa entra in Santo", perché ritengo che l'epiteto di finocchio qui usato non significhi "sodomita", ma più semplicemente "babbeo".

32) Mario Marti, Op. cit., p. 269.

33) Ibidem, p. 268.

34) Ivi.

35) Ibidem, p. 148.

36) Una lista di "luoghi" frequentati da sodomiti, secondo gli antichi documenti, appare nel mio saggio: Antonio Rocco and the background of his "L'Alcibiade fanciullo a scola", (1652), in: Atti del convegno "Among men, among women", Amsterdam 1983, pp. 224-232, e poi, in italiano, nel mio saggio: La fenice di Sodoma. Essere omosessuale nell'Italia del Rinascimento, "Sodoma" V 4, primavera-estate 1988, pp. 31-53.

37) Per il Trecento si veda la testimonianza di Giordano da Rivalta, Prediche inedite, Silvestri, Milano 1839, vol. 1, p. 101 e, per un periodo più tardo, di san Bernardino da Siena, Le prediche volgari, Rizzoli, Milano s.d. (ma 1936), p. 898 e passim.

38) Mario Marti, Cultura e stile nei discorsi giocosi del tempo di Dante, Nistri-Lischi, Pisa 1953, p. 183.

39) Mario Marti, Poeti giocosi del tempo di Dante, op. cit., p. 658.

40) Non si creda che i critici più recenti siano necessariamente i più aperti. Il culto ottocentesco (talora fanatico) per il "documento di lingua" ha spesso spinto gli studiosi del secolo scorso a pubblicare e discutere testi dal contenuto "scabroso". Molte di queste opere sono oggi disponibili solo in edizioni ottocentesche perché, venuta meno la curiosità erudita del secolo passato, si è preferito lasciarle elegantemente cadere nell'oblio…

Solo negli ultimi ai la situazione è un po' cambiata.

41) Francesco Gnerre, L'eroe negato, Gammalibri, Milano 1981; "Omosessualità e letteratura" in: Giovanni Delfino (a cura di), Quando le nostre labbra si parlano, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985, pp. 15-20.

42) Roberto Polce, Penna rubato, "Libertaria", n. 2, inverno 1983, pp. 58-65.

43) Mario Marti, Poeti giocosi…, Op. cit., p. 695.

44) Ibidem, p. 192.

45) Ibidem. p. 774.

46) Ibidem, p. 775.

47) Ibidem, p. 668. A voler essere sincero esiste in effetti una possibilità di leggere come "burlesco" questo componimento: attraverso la griglia interpretativa del gergo burchiellesco, che però sarebbe arrivato a piena definizione solo un secolo dopo.

In questo linguaggio la "virtù" è il membro virile, e quindi assume tutt'altro significato la penetrazione della virtù dell'amato nel "cuore" del poeta, facendolo gridare. E lo stesso significato acquisisce anche l'anima che il poeta non vuole che gli esca dal corpo. (Per capire la metafora burchiellesca si deve tener presente il significato di "anima" come "sostegno rigido che sta dentro un corpo", ad esempio nel "bastone animato"). E così via.

Paradossalmente Marti finirebbe con l'avere avuto ragione: i perugini desideravano realmente sputtanare il rarefatto linguaggio stilnovista facendosene beffe e trasformandone le virtù, l'amore e l'anima nella richiesta al proprio ganzo di non andarsene lasciando orfana e vuota la propria cavità posteriore…

Dubito però che Marti intendesse insinuare che le radici del gergo burchiellesco vadano cercate tanto lontano: se non altro perché il gergo burchiellesco è stato fin qui la pecora nera degli studiosi italiani, al punto che ancora non esiste un'edizione critica delle Rime del Burchiello.

Gli studi degli anni Novanta, per opera di studiosi non italiani, hanno sì finalmente messo sul tappeto la questione del doppio senso sessuale nel gergo burchiellesco, ma la riscoperta è troppo recente perché io possa azzardare l'ipotesi che il linguaggio dei perugini si valesse già di doppi sensi per così dire "proto-burchielleschi". Per lo meno, non in questo saggio e non certo in una nota a piè di pagina.

48) Ibidem, p. 671.

49) Ibidem, p. 703. Volendo a tutti i costi continuare il gioco del "proto-burchiellesco" il "ramo fiorito" è un "membro in erezione" (nel gergo burchiellesco tutto ciò che indica forza e vigore è metonimia per l'erezione), e ciò che teme il poeta è che gli venga strappata via l'"anima" dal "cuore". Eccetera.

Ma, lo ripeto, per seguire questa ipotesi occorre ben altro spazio e ben'altra impostazione.

50) Emilio Cecchi e Natalino Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano 1972, vol. 1, p. 712

51) Carlo Muscetta (a cura di), La letteratura italiana: storia e testi, Laterza, Bari 1973, vol. 1, pp. 427-428.

52) Mario Marti, Op. cit., p. 702.

53) Ne segnala l'esistenza Marti, Op. cit., che dal manoscritto Barberiniano-Vaticano latino 4036 riprende alle pp. 685-686 il sonetto che accompagna la lettera, e "buona parte" del testo latino. Anche questa è una ben strana "difesa", in cui il nostro si paragona ad una barca che da fortuna malvagia è stata spinta con freddi venti in un luogo dove "salute se desvia", e supplica l'amico Ugolino di pregare Dio, perché gli sia concesso di accodarsi alla sua barca che "immacolata per la via d'Amore va".

54) Mario Marti, Op. cit., p. 642.

55) Ibidem, p. 773.

56) Non discuterò in questo paragrafo della cosiddetta "Tenzone fra Dante e Forese", la cui autenticità è molto controversa. Del resto, quanti rifiutano di considerarla una burla dei primi anni del Quattrocento, interpretano le numerose accuse di sodomia in gergo burchiellesco che essa contiene in altro modo: se la tenzone fosse autentica, quindi, non avrebbe a che vedere col tema di questo saggio.

(Sul tema si veda ora Mauro Cursietti, La falsa tenzone di Dante con Forese Donati, De Rubeis, Anzio 1995, che a mio modo di vedere dimostra definitivamente il carattere di beffa quattrocentesca della "Tenzone").

57) Per una trattazione recente della questione si veda l'Enciclopedia dantesca, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1976, vol. 5, pp. 285-287, alle voci "Sodoma" e "sodomiti".

58) Tommaso d'Aquino, Summa theologica, II, II, q. 154, art. 11, c. 3. Traduzione italiana: Salani, Firenze 1968, vol. XXI.

59) Per capire l'atteggiamento della società italiana verso la sodomia in questo periodo, è indispensabile fare riferimento al libro di Michael Goodich, The unmentionable vice: homosexuality in the later medieval period, Ross-Erikson, Santa Barbara 1979.

60) Per un'accurata trattazione di tale evoluzione si veda Michael Goodich, Op. cit., cap. 4 ("The fourth Lateran Council and Scholasticism").

61) Commento alla Divina commedia d'Anonimo fiorentino del sec. XIV, Romagnoli, Bologna 1866, vol. 1, p. 375.

62) Giuseppe Avalle (a cura di), Chiose all'Inferno di Dante, Lapi, Città di Castello 1900, p. 81.

63) Francesco da Buti, Commento sopra la Divina commedia, Nistri, Pisa 1858, vol. 1, p. 407.

64) André Pézard ha dedicato un intero libro (Dante sous la pluie de feu Librairie philosophique, Paris 1950) al ridicolo sforzo di "lavare l'onta" di cui ritiene ingiustamente macchiati Brunetto e gli altri. Pézard vuole dimostrare che in realtà i canti XV e XVI dell'Inferno non parlano di sodomia vera e propria, ma di "sodomie spirituelle", consistente, nel caso del Latini, nell'avere usato il francese e non il volgare fiorentino per il Trésor.

65) Guiniforte dei Bargigi, Lo Inferno della Commedia di Dante Alighieri col commento di Guiniforto delli Bargigi, Molini e Mossy, Firenze e Marsiglia 1838, p. 367.

L'omosessualità nella poesia volgare italiana fino al tempo di dante. Appunti


Introduzione

Lo studio dell'omosessualità medievale affascina. Nulla, nel medioevo, è mai scontato: un immenso gioco di specchi fra la nostra epoca ed i "secoli bui" ci permette di perdere le coordinate, farci prendere dalla vertigine della storia, smarrire e ritrovare cento volte i tratti ed i segni della nostra epoca e della nostra cultura.

Nel medioevo niente è mai come "dovrebbe" essere. Là dove diamo per scontato un rapporto diretto fra la nostra epoca e quella medievale (per esempio nell'etica sessuale cristiana) i documenti ci smentiscono seccamente; dove invece riteniamo impossibili strette somiglianze (per esempio nel campo degli stili di vita omosessuali), ecco emergere concezioni e pratiche di vita straordinariamente "moderne". A volte sorge perfino il dubbio che siamo noi ad esserci impadroniti delle caratteristiche più genuinamente "medievali" dei nostri avi, limitandoci a rigettare e proiettare sul passato tutti gli aspetti più odiosi della nostra epoca.

E certamente, così è. Troppo spesso scordiamo di "essere nani sulle spalle di giganti", dimentichiamo che non è mai esistita una vera e propria cesura fra la nostra epoca e quelle antiche. Certo, la storia umana conosce periodiche "messe a fuoco", momenti di sintesi in cui il tesoro di conoscenza accumulato nei secoli precedenti viene ripensato e distillato. E certamente dalla "rivoluzione scientifica" in poi, la società occidentale è cambiata a velocità impressionante. Eppure una fittissima ragnatela di rapporti ed echi, di sopravvivenze ed imitazioni, ci unisce ai nostri avi.

Sono queste le ragioni che mi hanno spinto ad interessarmi a un argomento a prima vista arido come quello del presente saggio. Esplorare la società medievale significa avventurarsi in un Paese completamente straniero eppure familiare, in cui i nostri criteri di valutazione vengono completamente scardinati, e le nostre idées reçues crollano. Un simile studio ci mette a disposizione modelli di comportamento e di idee che smentiscono molti nostri assiomi su quello che "deve" essere l'omosessualità.

Purtroppo spesso gli studiosi gay si tengono lontani dal periodo medievale per il mito fin troppo diffuso del "silenzio" di questi secoli, della mancanza di documenti. Si tratta ovviamente di un pregiudizio, e per dimostrarlo ho voluto proporre con questo saggio un primo esempio della documentazione che attende chi voglia "accingersi al cimento".

È una documentazione così ricca che io stesso, per quel che mi riguarda, sono stato costretto a limitare il mio lavoro ad un periodo di circa cento anni (dai primi decenni del sec. XIII ai primi decenni del sec. XIV), alle sole opere in volgare (escludendo quelle in latino), alle sole composizioni poetiche (escludendo quelle in prosa, e la saggistica) e, naturalmente, ai soli autori italiani.

Per rendere l'idea di quanto possano essere a volte errate le nostre convinzioni è sufficiente un dato: la poesia di tema omosessuale in lingua italiana è, da quel che ho potuto verificare, più copiosa nel XIII secolo che nel XIX...

Questioni di metodo

Studiare il comportamento omosessuale in epoca medievale mette sempre di fronte a non pochi problemi metodologici. Il principale sorge dal fatto che il nostro concetto di "omosessuale", come è noto, ritaglia una parcella di comportamento umano che per molti aspetti non combacia con quella ritagliata dal concetto medievale di "sodomita", che gli è omologo. Gli stessi comportamenti sono stati giudicati dalle due società (quella medievale e la nostra) secondo criteri assai differenti.

È soprattutto il confine tra "comportamenti illeciti" e "leciti" ad essere molto diverso. Ciò che ai nostri occhi è esplicitamente omosessuale, agli occhi del medioevo spesso appariva come normale espressione d'amicizia, mentre alcuni dei tratti più connotati da erotismo nella società medievale ne sono del tutto privi oggi.

In particolare va notato che la società medievale, al pari di tutte le società occidentali passate, e a differenza della nostra, era altamente "omo-sociale". Gli individui cioè lavoravano, studiavano, pregavano, si svagavano, e se non sposate di solito anche dormivano con persone del loro stesso sesso. Il livello di intimità e contatto fra gli uomini e fra le donne permesso dalla società medievale sarebbe oggi giudicato "imbarazzante" perché esplicitamente "omosessuale" (mentre al contrario l'attuale promiscuità fra i sessi sarebbe stata giudicata, da un uomo del medioevo, come espressione della più sfrenata lussuria eterosessuale).

Troppe volte si sono male interpretate calorose manifestazioni d'amicizia (o di devozione per un superiore) scambiandole per espressioni d'amore (1) ed al contrario troppe volte s'è avuto buon gioco nel camuffare la cosciente espressione di sentimenti amorosi fra persone dello stesso sesso, spacciandola per una più anodina "amicizia". Per quel che mi riguarda, in questo saggio cercherò se possibile di discriminare fra le due motivazioni affettive (amicizia/ amore), discutendo solo delle composizioni d'esplicito tema sodomitico, oppure che dal raffronto con la poesia amatoria della stessa epoca rivelino un carattere amoroso. Non posso però tacere che il preciso confine medievale fra "amicizia" ed "amore" resta ancora da delimitare in modo chiaro, ed è da considerarsi "questione aperta" (2).

Infine: perché ho scelto Dante come "spartiacque storico"? Perché egli condivideva, nei confronti dei sodomiti, una mentalità relativamente tollerante (tipica dell'alto medioevo) che venne meno a partire dalla seconda metà del Duecento, al punto da non essere più capita già dai commentatori danteschi del XIV secolo. Sotto l'assurda denominazione di "medioevo" noi affastelliamo infatti ben mille anni di storia, nel corso dei quali si sono avute fasi e cicli, momenti di persecuzione e momenti di tolleranza, momenti di fioritura di una sottocultura e momenti di regressione. Dante vive nel momento di trapasso fra due fasi: mettere a fuoco il suo punto di vista può essere perciò interessante, perché ci permette di avere una "pietra di paragone" per giudicare gli atteggiamenti dei secoli immediatamente successivi. Il mito (a cui sembrano dar credito i fautori dell'historical constructionism) del medioevo monolitico, "tunnel buio" fra le età classica e moderna, va sfatato, mentre è opportuno mettere in rilievo il susseguirsi di cicli di tolleranza e di repressione dell'omosessualità durante questo periodo.

Le primissime attestazioni
poetiche in latino e volgare.

Per quanto mi è dato conoscere, la prima composizione medievale di autore italiano per una persona dello stesso sesso è scritta in lingua latina: si tratta della ben nota canzone 0 admirabile Veneris ydolum, che data dal IX secolo (3).

Per trovare un documento poetico in volgare allusivo all'omosessualità (in questo caso: alla sodomia) bisogna aspettare l'inizio del Duecento, con l'enueg (od enoio) di Girardo Pateg (secc. XII-XIII). In esso l'autore dichiara nell'elencare le cose che gli dispiacciono:

A noia m'è ancor sovra tuto

om vil qe vol esser meschero

andar en çocole per lo suto

pissi magri e veglo putanero (4).

(Ancora mi dispiacciono soprattutto l'uomo vile che vuol far l'attaccabrighe, andar in zoccoli per l'asciutto, pesci magri e vecchio puttaniere).

L'espressione andare in zoccoli per l'asciutto è un eufemismo per "usare sodomia": si ricorderà che con tale significato si trova ad esempio nel Decamerone (giornata IV, novella 10) e in altre opere successive fino al Cinquecento (5). Non a caso il verso "incriminato" è omesso da alcuni manoscritti (6).

Ser Brunetto Latini
e Bondìe Dietaiùti

Certo, questo fugace accenno nulla aggiunge a quanto già sapevamo sull'argomento. Tuttavia, pochi decenni dopo Pateg abbiamo già la prima composizione in volgare dedicata a persona dello stesso sesso - per lo meno la prima che io abbia rintracciato. Ne è autore un personaggio talmente "ovvio" da questo punto di vista, da essere del tutto inatteso: Brunetto Latini (1220-1294). Costui, in esilio da Firenze attorno al 1260, scrisse una poesia amorosa che inizia col verso: "S'eo son distretto jnamoratamente", e che fino a poco tempo fa si credeva indirizzata (anche per la voluta ambiguità sul sesso del destinatario) a una donna.

Di recente Silvio Avalle D'Arco ha invece dimostrato che il destinatario era il poeta Bondìe Dietaiùti (sec. XIII), il quale rispose con la composizione "Amor, quando mi membra".

Nessun dubbio sul fatto che la poesia del Latini sia amatoria: egli usa infatti il linguaggio convenzionale della poesia amorosa eterosessuale per esprimere i suoi sentimenti verso Bondìe. Brunetto dichiara che "il suo amore" lo ha ferito, e se non lo risanerà al più presto non potrà scampare. Ma non si cura della sofferenza d'amore, perché l'amante fedele riceve di solito il premio per la sua fedeltà. È evidente qui la ripresa dei moduli della poesia provenzale.

Il senso della risposta di Bondie non è altrettanto facilmente interpretabile. Si ha infatti l'impressione che i due poeti parlino linguaggi differenti, o per meglio dire che attribuiscano alla parola "amore" significati diversi.

Nella risposta di Bondìe si legge deferenza ostentata, rispetto per le alte qualità intellettuali di Brunetto, gioia per il fatto che un simile personaggio si sia ricordato di lui, nonostante un non meglio identificato sgarbo trascorso; tutte ragioni - dice Bondìe - che non possono non spingerlo ad "amare" a sua volta Brunetto. Ma è questo un "amore" tutto cerebrale, mentre quello espresso dal Latini ha vibrazioni che lo avvicinano maggiormente a quanto noi riteniamo essere un sentimento amatorio.

Così canta dunque Brunetto:

S'eo son distretto jnamoratamente
e messo jn grave affanno
assai più ch'io non posso soferire,
non mi dispero né smago neiente,
membrando che mi danno
una buona speranza li martire
com'eo degia guerire:
ché lo bon soferente
ricieve usatamente
buono compimento delo suo disire.
Dumqua, s'io pene pato lungiamente
non lo mi tengno a danno,
anzi mi sforzo ongnora di servire
lo bianco fioreauliso, pome aulente
che nova ciaschuno anno
la grande bieltade e lo gaio avenire.
(…)
Va' te ne, chanzonetta mia piagiente,
a quelli che canteranno
pietosamente delo mio dolire,
e di' che 'n mare frango malamente.
(…)
Prega gli che 'n piacere
metano al'avenente
che mi dea prestamente
confortto tale che mi degia valere (7).

(Se io sono avvinto da amore, e messo in grave affanno assai più di quanto riesco a sopportare, non mi dispero né mi angoscio, ricordando che le sofferenze mi danno una buona speranza di guarire; perché chi ben sopporta le sofferenze d'amore riceve di solito una buona ricompensa al suo desiderio. Dunque, se io sopporto a lungo le pene, non lo giudico un male, anzi mi sforzo sempre di servire il bianco fiordaliso, pomo profumato che rinnova ogni anno la grande bellezza ed il gaio aspetto. Vai, canzonetta mia piacevole, a quelli che canteranno pietosamente del mio soffrire, e di' loro che io nàufrago malamente in alto mare. Prégali che dispongano favorevolmente verso me l'avvenente, affinché mi dia prestamente un conforto tale che mi dia sollievo).

Ben diverso è il linguaggio di Bondìe:

... Ma lo 'ncharnato amore
di voi, che m'à distretto
fidato amico alletto,
mi sforza ch'io mi degia rallegrare,
(…)
cha, più ch'io nom sono dengno
e nonn ò meritato,
sono da te presgiato,
onde di grande amore m'à fatto sengno
E como se' 'nsegnato,
e dòtto, di ricco jngiengno!
Per ch'io allegro mi tengno,
vegiendo te di grande savere ornato...
(…)
Kanzonetta
(…)
saluta lo da mia partte
poi di' gli che nom partte
lo mio core da llui, poi sia lontano;
di'lgli che'm pemssasgione
mi tiene e 'n alegranza,
tanto mi dà baldanza
lo meo core, ch'è stato 'n sua masgione (8).

(Ma l'amore incarnato di voi, che mi ha avvinto, fidato ed eletto amico, mi obbliga a rallegrarmi, perché sono da te [sic] stimato più di quanto non sia degno ed abbia meritato, per cui sono fatto segno di un grande amore. E come sei cortese, e dotto, di ricco ingegno! Per questo io sono felice, vedendoti ornato da grande sapienza. Canzonetta, salutalo da parte mia, e poi digli che il mio cuore non si separa da lui, anche se è lontano; digli che penso a lui e mi mantengo lieto, tanto mi dà coraggio il mio cuore, che è stato a dimora da lui…).

Nonostante Avalle ritenga che le due composizioni appena viste siano la fonte da cui Dante avrebbe appreso dell'omosessualità del Latini, io non lo crederci probabile. Penso piuttosto che l'Alighieri si sia basato su pettegolezzi analoghi a quelli riferiti da suo figlio Pietro (nel commento alla Divina Commedia) a proposito di Jacopo Rusticucci (9).

Questo perché, come ho già detto, nel medioevo manifestazioni di attaccamento ed affetto fra persone dello stesso sesso, specie se dirette verso un superiore, erano socialmente ammesse. Si pensi solo all'artificio provenzale del senhal (che per la mentalità nostra è un controsenso): sotto il nome maschile di un superiore il poeta può nascondere l'identità della donna amata, cosicché canta l'amore per un uomo allo scopo di esprimere l'amore per una donna (10).

Esempi di simili manifestazioni di "amor feudale" si trovano anche nella letteratura italiana, e pure in epoca piuttosto tarda (Quattrocento avanzato): sarebbe un errore crederle genuine espressioni di un sentimento amoroso (11).

Quello che qualifica di "amatoria" la poesia in questione non è quindi il suo carattere affettuoso, che probabilmente non era visto dalle convenzioni sociali dell'epoca come legato alla pratica sodomitica/omosessuale, bensì il già accennato uso dei moduli stilistici scelti dal Latini, quelli dell'amor cortese. Le parole, le immagini, le similitudini che Brunetto sceglie sono adatte al registro amoroso, non a quello amicale. L'autore è tanto conscio di ciò che sta facendo, che preferisce velare il sesso della persona a cui si rivolge, attraverso l'artificio (usatissimo per secoli dagli omosessuali) di utilizzare solo aggettivi ambigeneri (si noti ad esempio l'avvenente della terzultima riga). Ma fa di più: quando a un certo punto usa aggettivi al maschile, li fa concordare con il "bianco fiordaliso, pomo profumato", e non con un qualche "lui" amato. L'ambiguità è salva...

Al riparo di questo malizioso schermo, Brunetto può permettersi di invocare a suo favore la differenza esistente tra amicizia e sodomia, esaltando la prima in questa ed altre composizioni, e condannando la seconda nel Tesoretto:

Ma tra questi peccati
son vie più condannati
que' che son soddomiti:
deh, come son periti
que' che contra natura
brigan cotal lusùra! (12)

Se i suoi contemporanei abbiano poi creduto o meno alla purezza dei suoi sentimenti, è cosa da chiedere al buon Dante...

Attestazioni frammentarie
di vari autori

Nello stesso periodo (decennio più, decennio meno) in cui Bondìe e Brunetto scrivono le composizioni appena esaminate, altri poeti iniziano ad accennare esplicitamente nei loro componimenti volgari alla sodomia.

Per primi citerò due brani che testimoniano della mentalità da cui trasse alimento l'atteggiamento intollerante che trionfò dopo il 1300, e che rivelano la convergenza fra zelo religioso e rigorismo borghese. Uno dei due brani è infatti preso dalla lauda di Iacopone da Todi (n. tra 1230 e 1236, m. 1306) "0 libertà suietta ad onne creatura", in cui leggiamo:

0 amore carnale, sentina putulente,
ensolfato foco ardente, rason d'omo embrutata,
che non n'ài altro Deo, se non d'emplir lo vente,
lussuria fetente, malsana, reprobata;
o somersa contrata, Sogdoma e Gomorra,
en tua schera se 'n curra chi prende tua amistate! (13)

L'altro brano ci viene invece dall'anonimo rimatore, soprannominato "il Dante genovese", che visse appunto a Genova nel XIII secolo. Nella composizione intitolata De quibusdam gravibus peccatis, i vv. 9-12 dicono:

Di sodimita è lo segondo [peccato, N.d.R.]
chi è sozo, e de tar pondo [peso]
che chi comete tar peccào
degno è alô de eser cremào (14).

Come si vede il nostro devoto anonimo è un assertore della pena del rogo, che iniziò ad essere effettivamente usata anche per i sodomiti (prima sporadicamente, poi sistematicamente) a partire dall'ottavo-nono decennio del XIII secolo (15). Da notare che mentre il primo dei brani appena visti si limita a ribadire una condanna religiosa che non fu mai assente dall'etica cristiana di tutti i secoli, il secondo introduce un elemento nuovo, un'oggettiva intolleranza che vedremo trionfare definitivamente solo dopo Dante.

Più difficile da valutare è la rilevanza di due sonetti di Rustico Filippi (1230/4 - 1291/1300): "A voi, messere Iacopo comare", e "Fastel, messer, fastidio de la cazza", nei quali troviamo epiteti ingiuriosi (comare, fastidio de la cazza) forse allusivi alla sodomia.

Alcuni accenni un po' oscuri a non meglio specificati rapporti fra messer Iacopo e Fastello sembrano proprio accusare i due di intimità sessuale:

Ma troppo siete cònto di Fastello
in fin tanto ch'egli ha danar da spese:
ond'e' si crede bene esser donzello (16).

(Ma siete troppo intimo di Fastello, fin tanto che questi ha denaro da spendere, tanto che si crede di essere ormai un giovane nobile).

Quale che sia l'interpretazione da dare a questi versi (allusivi? non allusivi?) rimane comunque il fatto che si tratta in primo luogo di insulti, che come tali poco o nulla ci dicono sulle realtà esistenziali effettive.

Lo stesso Rustico Filippi è del resto accusato a sua volta di darsi alla sodomia (anzi, alla prostituzione) da un altro compositore, Iacopo da Lèona (m. prima del 1277), che ci ha lasciato fra l'altro un sonetto burlesco, "Signori, udite strano malificio", zeppo di doppi sensi, in cui leggiamo:

Non giova che la moglie l'ammonisce:
"ché non pensi di queste tue fanciulle,
se non che sopra ti pur miri e lisce?"
Que' risponde: "Perché non le trastulle?
Tòrre a' compagni non mi comparisce,
ca rimedir non posso pur le culle" (17).

(Non giova che la moglie di Rustico lo ammonisca: "Perché non pensi a queste tue figlie, invece di passare il tuo tempo a rimirarti e lisciarti?". Quegli risponde: "Perché non badi tu a loro? Rubare agli amici non mi rende abbastanza: neanche di che pagare le culle").

Ovviamente è difficile che simili accuse corrispondessero à verità. In fondo, secondo Iacopo, Rustico

... verso l'aia rizza tal dificio
che tra' sì ritto, che non falla volta (18),

Alcuni sonetti giocosi
di Rustico Di Filippo


(e non è difficile immaginare quale "marchingegno" (dificio) "rizzi" in modo tale da "non sbagliare un colpo") perché è un amorale, non perché sia un sodomita per vocazione: infatti non esita ad utilizzare anche il furto, oltre alla prostituzione, per arraffare denaro.

Sapore beffardo ha infine la composizione che Lapo Farinata degli Uberti (sec. XIII) scrive contro Guido Cavalcanti (1255-1300).

Al sonetto "In un boschetto trova' pasturella", in cui Guido si vanta di un'avventura galante-boschereccia con una compiacente "pasturella", Lapo risponde:

Guido, quando dicesti "pasturella",
vorre' ch'avessi dett'"un bel pastore",
che sì convèn ad om che vogl'onore,
se vòl contare verace sua novella (19).

Lapo assicura che quel giorno "un che fu teco al boschetto" non vide

... se non un valletto
che cavalchava ed era biondetto
ed avea li suo' panni corterelli;
però rasetta, se vuo', tuo motetto (20).
(Perciò riscrivi, se vuoi, la tua poesia…).

I casi sono insomma due, per Lapo: o Guido si è vantato "a vuoto", e quel giorno non ha fatto nulla, oppure, se l'ha fatto davvero, l'ha fatto con un uomo.

Ricordando però che il Cavalcanti aveva sposato una Beatrice degli Uberti, l'intera vicenda acquisisce il sapore d'una burla fra parenti.

La cerchia senese

Decisamente maggiore è per noi l'interesse che rivestono le composizioni provenienti dalla cerchia di poeti giocosi che fiorirono a Siena ai tempi dell'Angiolieri. Costoro ci hanno infatti lasciato non solo alcune poesie omoerotiche, ma anche allusioni sparse che indirettamente si rivelano preziose per meglio definire gli incerti confini esistenti allora fra omoerotismo e pratica omosessuale. Gli autori dalle cui composizioni possiamo trarre notizie interessanti sono: Cecco Angiolieri, Musa (o Muscia) da Siena, Meo de' Tolomei, Granfione de' Tolomei e due anonimi.

Musa da Siena e
Granfione de' Tolomei

Fra gli autori appena nominati, Musa da Siena (sec. XIII, m. dopo il 1290) è quello la cui "omosessualità" (come la chiameremmo oggi) è più probabile.

Non solo egli ci ha lasciato due graziosi sonetti omoerotici, ma è con probabilità il Muscia citato come sodomita nella composizione: "Le favole, compar", di Iacomo (o Granfione) de' Tolomei (seconda metà sec. XIII, m. prima del 1290). In essa Granfione paragona agli animali parlanti delle favole alcuni personaggi senesi dell'epoca; fra essi:

Ser Lici è orco e mangia li garzone
e 'l Muscia strega, ch'è fatto, d'om, gatta,
e va di notte e poppa le persone (21).

(Ser Lici è un orco e divora i ragazzi e il Muscia è una strega, capace di trasformarsi in gatta, per girare per la città di notte e succhiare il membro virile agli uomini).

Se il Muscia qui citato è davvero Musa da Siena, abbiamo anche la testimonianza convergente della sua omosessualità nei sonetti. In essi (scritti fra il 1285 ed il 1290) l'autore sogna di regalare le cose più rare e preziose ad un certo Lano (forse il Lano da Siena che Dante cita in Inferno XIII?) perché:

Amor comanda, e così vòl che sia,
ched i' faccia per la sua gran beltade,
ch'è tanta che contar non si porìa (22).

Di Lano dice Musa:

ch'i' l'amo più che nessun uom la vita
ed e' mi tien per suo e son e paio:
ed e' se ne potrebbe avveder naio [cieco]
e a lui vado, com'a la calamita
va lo ferro, che è naturaltade (23).

Come è evidente, anche questo poeta oltrepassa i confini dell'espressione amicale per entrare in quella amorosa. Per capirlo basterebbe notare l'insistenza con cui egli tratta dell'avvenenza dell'amico, descritta addirittura come la qualità preminente in Lano. Se la bellezza è infatti "tanta che non si potrebbe descrivere ",

... non dico così de la bontade
né del senno, perciò ch'i' mentirìa (24).

Musa, dunque, secondo le migliori tradizioni, non è riamato. Eppure non si scoraggia, e lungi dal tacere afferma orgogliosamente che la sua attrazione è frutto di "naturaltade" quanto quella che spinge il ferro verso la calamita.

Nelle sue poesie, insomma, mi pare di individuare anche un elemento di autogiustificazione, nonché una rivendicazione.

L'"Anonimo uno"

Altrettanta chiarezza di idee si ritrova in due sonetti anonimi ("Udite udite, dico a voi, signori" e "I' so' fermo in su questa oppenione") di cerchia angiolieresca (sec. XIII), che per ragioni di comodità tratterò qui come se fossero di un unico autore, che chiamerò "Anonimo uno" (che secondo Antonio Lanza altri non sarebbe che Musa da Siena).

Costui, per parlare dell'amore che prova per un altro uomo, nella prima composizione prende addirittura in prestito i "tre colori" della poesia "cortese":

Udite udite, dico a voi, signori,
e fate motto voi, che siete amanti:
avreste mai veduto, tra cotanti,
cotal c'ha 'l volto di tre be' colori?
Di ros'e bianch'e vermigli'è di fuori… (24).

Le intenzioni dell'autore verso l'amato sono del resto fin troppo esplicite:

Or lo mi dite, ch'i' vi son davanti
sed elli inver' di me fa tai sembianti
ched i' potessi aver que' su' colori (26).

(Ora ditemi se egli si mostra così innamorato di me da darmi speranza di godere quei suoi tre colori).

Ma poiché il "bello" non sembra intenzionato a lasciare allungare le mani sui "tre bei colori", l'autore dichiara che intende mettersi a giacere e morire di sospiri e pianti.

Anche nella seconda composizione le convenzioni letterarie della poesia amorosa del tempo emergono con prepotenza e (bisogna dirlo) senza alcuna originalità:

Ma questo dico, sanza riprensione,
di non servirti; né sarò fedele,
poi che di dolce mi vòi render fèle:
fàilti tu, ma non ne hai la ragione (27).

(Ma questo dico, senza pentimento: non ti presterò servizio amoroso, né sarò fedele, perché tu in cambio di dolcezza mi vuoi rendete fiele: sei tu che te lo si voluto, anche se non ne hai nessuna ragione).

L'"Anonimo due"

Alle poesie appena esaminate si avvicinano molto (al punto che secondo Antonio Lanza sarebbero anch'esse da attribuire allo stesso Musa da Siena a cui ha attribuito le prime due) quelle d'un altro autore antico, che per comodità chiamerò "Anonimo due". Di lui ci è stata tramandata una coppia di sonetti: poiché l'oggetto amato è in entrambi lo stesso, è facile identificarli come opera dello stesso rimatore.

Nella prima composizione viene descritto l'amore per un certo Corso:

Un Corso di Corsan m'ha sì trafitto
che non mi val cecèrbita pigliare,
né dolci medicine né amare… (28).

(Un certo Corso, di Corsano, mi ha trafitto in modo tale che non mi serve curarmi con la cecerbita, né con medicine dolci o amare…).

Purtroppo tale amore non è ricambiato:
La 'nd'i' son quasi al tutto disperato,
da poi ch'e' non mi val null'argomento;
a questo porto Amor m'ha arrivato.
Ché son quell'uom che più vivo sgomento,
che si' nel mondo o che mai fosse nato:
chi me n'ha colpa, di terra sia spento (29).

(Per cui io sono quasi completamente disperato, perché nessun mezzo mi è di giovamento: a questo porto Amore mi ha deposto a riva! Perché io sono l'uomo che vive nel turbamento più di chiunque sia al mondo o sia mai nato: colui che è responsabile di ciò, possa essere cancellato dalla Terra!)

Nel secondo sonetto, costruito secondo i moduli del vítuperium, Corso viene maledetto perché monopolizza l'attenzione d'un uomo bellissimo (al quale il nostro autore è tutt'altro che insensibile), ma anche l'amato riceve la sua dose di rabbuffi:

E se non fosse ch'i' non son lasciato
sì mal direi, e vie più fieramente,
al vostro gaio compagno e avvenente,
che di bellezze avanza ogni uom nato;
ma sì mi stringe l'amor infiammato
che verso lui ho sparto per la mente (30).

(E se non fosse che l'amore me lo impedisce direi altrettanto male, ed anche con maggior veemenza, del vostro gaio ed avvenente compagno, che supera per bellezza ogni uomo; ma l'amore infiammato che per lui ho dentro di me, mi tiene a tal punto che non posso farlo).

Anche qui il dubbio sul tipo di sentimento nutrito dall'autore non sussiste, dato che è esplicitamente definito "amor infiammato".

È stato peraltro proposto di invertire il tradizionale ordine dei sonetti, di modo che il sentimento espresso dal primo per Corso risulti di gelosia piuttosto che d'amore. In questo modo, infatti, l'"Anonimo due" apparirebbe innamorato del "gaio compagno ed avvenente", portatogli via da Corso, suo rivale. A mio parere la proposta può essere convincente; comunque sia, anche invertendo l'ordine dei sonetti… il prodotto non cambia.

Meo de' Tolomei

Il quadro delineato fin qui non è completo senza un paio d'allusioni che si trovano nei sonetti di Meo di Simone dei Tolomei (notizie fra il 1260 ed il 1310 circa), le cui opere sono state a lungo confuse con quelle dell'Angiolieri (31).

In alcuni di esse Meo si lamenta perché il suo ex-amico Ciampolino ha perso al gioco il denaro prestatogli, e non lo vuole più restituire. Il rapporto intercorso fra i due prima della rottura appare, a prima vista, quello d'una normale amicizia, o al più di una comunanza di bagordi. È vero che Meo dice:

Io feci di me stesso un Ciampolino
credendomi da lui esser amato (32);

ma in un'altra composizione tale "amore" assume per l'appunto i normali connotati amicali:

Da te parto [separo] 'l mie core, Ciampolino,
e se no' fummo giamma' dritt'amici,
ora sarem mortalmente nemici (33).

Eppure, proprio in quest'ultimo sonetto troviamo un'inattesa ammissione di amori omosessuali:

Sie certo ch'i' sapre' mangiar pernici
e giucar e voler lo mascolino,
sì come tu; ma aggio abbandonate
queste tre cose, per ch'om non potesse
dir: "Quegli è giunto in grande povertate" (34).

Una volta di più: dov'era mai il confine tra l'esser "dritt'amici" ed il "voler lo mascolino" che Meo dice di aver "abbandonato" (ma solo perché troppo costoso)? La brusca e del tutto spontanea convergenza fra amicizia e "amar lo masculino" di questa poesia ci ammonisce che se non tutta l'amicizia antica va letta in chiave omosessuale, è sbagliato ostinarsi a leggerla tutta come se non potesse mai avere connotazioni omosessuali.

Cecco Angiolieri

Se l'ambiente poetico senese era, come abbiamo visto, così poco pudibondo nel parlare di amori maschili, quel birbone di Cecco Angiolieri (ca. 1250 - prima del 1313) non poteva certo mancare di dire la sua. Eccolo infatti che ci presenta, in compagnia del nostro amico Ciampolino, un altro sodomita ancora:

Così potre' i' viver senz'amore
come la soddomia tòllar a Moco,
o come Ciampolin gavazzatore
potesse vivar tolléndoli 'l gioco (35).

(Io potrei vivere senza amore quanto Moco riuscirebbe a vivere se gli fosse impedita la sodomia, o come Ciampolino gavazzatore potrebbe vivere senza giocare).

Il tono di questi versi è chiaramente giocoso: ma riusciamo a immaginarci un poeta, ad esempio, del XIX secolo, che per dire quanto gli è necessario l'amore paragonasse il suo bisogno a quello d'un sodomita? Evidentemente no. Anche nella burla l'atteggiamento di questi poeti medievali è dunque peculiare, e molto diverso da quello a cui siamo abituati oggi.

Oltre tutto, va notato che non si tratta dell'atteggiamento isolato di un singolo personaggio un po' mattacchione. Il Ciampolino citato dall'Angiolieri è probabilmente lo stesso di cui parla Meo de' Tolomei. I due poeti non dovevano affatto ignorare l'uno l'esistenza dell'altro, come dimostra l'incipit del sonetto "Io son sì magro che quasi traluco" che Meo riprende proprio dall'Angiolieri.

Tale frequentazione comune degli stessi ambienti, questa apparizione ripetuta nelle rime dei senesi non solo di prostitute, giocatori, "gavazzatori", ma anche di una nutrita pattuglia di sodomiti - anche part-time - (Muscia, Moco, ser Lici, per un certo periodo Ciampolino e Meo ed, almeno come aspirazioni l'Anonimo uno e l'Anonimo due) ci pone un'importante questione. Da cosa nasce questa visibilità così aperta dei sodomiti, che nelle composizioni appena viste sono persone sì schernite, ma tangibilmente presenti in mezzo agli altri, neppur tanto nascoste? E da dove hanno origine le dichiarazioni così orgogliose di amore "diverso" (che ritroveremo nella cerchia dei "perugini")? Siamo di fronte ad una sottocultura (tollerata dalla società dei "normali") o solo alle stranezze di alcuni eccentrici?

La questione della
sottocultura deviante

Fino ad oggi la risposta degli studiosi di letteratura è stata quella di negare una rispondenza qualsiasi fra queste espressioni letterarie e la realtà oggettiva. Quelle di cui abbiamo parlato sarebbero composizioni giocose, meri divertimenti letterari che non intendono certo esprimere sul serio una "perversione sessuale".

Ovviamente io dissento da questo approccio. Sono esistiti in passato momenti in cui la convenzione letteraria ha spinto a scrivere di amore omosessuale per semplice "moda" (ma credo non sarebbe del tutto fuori luogo indagare su fino a che punto alla radice di queste "mode" non ci fossero proprio degli omosessuali... ); tuttavia il semplice ricorso alle "mode" non è sufficiente a render conto di duemila anni di letteratura di tema omosessuale. Duemila anni non fanno una "moda": fanno una cultura. Compito dello studioso è perciò, a mio parere, anche sceverare l'elemento fornito dalla convenzione da quello fornito dall'esperienza personale, non di proporre spiegazioni miracolose secondo cui "tutto è convenzione", oppure "tutto è esperienza vissuta".

Proprio per questo, senza affatto negare la presenza d'elementi convenzionali nelle poesie che stiamo esaminando, non ritengo imprudente verificare anche la possibile presenza in esse di elementi derivati da una sottocultura. Certo, la griglia di lettura del fenomeno omosessuale era in passato molto diversa dalla nostra: per questo non possiamo assolutamente aspettarci che la sottocultura antica si presenti ai nostri occhi coi tratti di quella che conosciamo oggi. Si sarà trattato di una "sottocultura sodomita", e non certo di una "sottocultura omosessuale".

Purtroppo molti studiosi, eccessivamente attaccati al modello nordamericano di sottocultura, lo usano come pietra di paragone universalmente valida. Solo quando riconoscono tratti simili a quelli esistenti oggi a San Francisco o New York, sono disposti ad ammettere la presenza di una "sottocultura omosessuale". Ciò li ha portati ad una singolare cecità nei confronti di qualsiasi "sottocultura sodomita" del medioevo, che ovviamente non si conforma ai loro canoni...

Eppure i tratti che emergono dai documenti antichi delineano ambienti in cui certe caratteristiche riappaiono con insistenza, e ci permettono di farci un'idea di massima di una possibile sottocultura medievale.

Si sarà trattato innanzi tutto di una sottocultura notturna, che si impadroniva di certe vie o luoghi quando la città era vuota.

Era molto più gerarchica di quella di oggi: l'età e il rango sociale decidevano molto spesso del ruolo sessuale (attivo o passivo) nel rapporto.

Era composta da persone sposate in misura maggiore di quanto lo sia oggi la sottocultura omosessuale, ma conosceva anche il sodomita non ammogliato.

Particolare importante, spesso non aveva luoghi specificamente suoi, ma amava (o doveva) mischiarsi agli ambienti interlopes (quelli che troviamo anche nelle composizioni dei poeti senesi) che avevano il loro fulcro nella taverna. Taverne, negozi di barbieri (sic!) e quartieri "malfamati" sono le zone che con più insistenza ritornano per secoli nei processi, nei fulmini dei predicatori, nelle barzellette, nelle disposizioni legislative che riguardano i sodomiti. Ma a volte troviamo anche luoghi assolutamente "anomali", come i portici delle chiese (36).

Infine, la sottocultura "sodomita", imponendo il ruolo "attivo" oltre una certa età, costringeva ad un costante "reclutamento temporaneo" di "passivi" fra i giovani: non essendoci "aspiranti sodomiti" a sufficienza per tutti era necessario procurarsene fra gli eterosessuali. La sottocultura sodomita prevedeva quindi e stimolava la nascita ai suoi margini di una fiorente prostituzione (37). La motivazione economica del "passivo" è del resto ribadita fino alla nausea da molti documenti, prodotti sia all'interno che all'esterno di questa sottocultura. Lo stesso "sodomita" si aspettava tale motivazione dal suo partner, e tentava quindi di allettarlo con favori, grazie e soprattutto denaro. Anche le poesie che stiamo esaminando lasciano trasparire, a mio parere, una simile concezione.

Purtroppo una trattazione non superficiale di un tale problema mi porterebbe molto lontano dal tema di questo saggio. Mi limito pertanto a questi pochi cenni, ripromettendomi di ritornare più ampiamente sull'argomento in futuro. Quello che contava sottolineare qui era come non sia del tutto assurdo ipotizzare che le composizioni ora esaminate (o almeno alcune di esse) possano essere almeno in parte espressione di uno "stile di vita" (o sottocultura) sodomita, nonostante indossino le vesti ortodosse ed eleganti della convenzione letteraria amorosa (o giocosa) dell'epoca.

La cerchia perugina

Un simile sospetto diviene particolarmente forte esaminando le composizioni lasciateci dalla "cerchia perugina", fiorita nei primi decenni del Trecento.

Trattandosi del fenomeno più visibile (ed "ingombrante") di espressione poetica di sentimenti omoerotici nel periodo pre-rinascimentale, è soprattutto su questa cerchia che si sono appuntati gli strali e l'attenzione degli studiosi.

"Giocosi epigoni", li definisce ad esempio un ricercatore della levatura di Mario Marti, che aggiunge: "Con loro siamo di fronte al fossilizzarsi di una tradizione e al rinnovarsi in volgare di un "genere" letterario, già così garrulo, vivace e zampillante nel latino dei Goliardi" (38).

Per Marti la tematica omoerotica che troviamo in una percentuale piuttosto consistente di composizioni di questa cerchia, è in definitiva solo un gioco letterario, l'estrema dissacrazione dei poeti burleschi del Due-Trecento: "A noi repugna il pensiero che uomini veramente pervertiti si facciano della loro perversione una luminosa bandiera e si esaltino della loro vergogna… Noi incliniamo ad attribuire alle lubriche, ma grasse, tenzoni dei poeti perugini… non il valore di cinica ed osannante confessione ma quello di un "gioco burlesco", anche se a noi può apparire volgare, basso e grossolano. S'era fatta la parodia del villano che s'inurba, s'erano derise le donne, vecchie, giovani, brutte e belle fino ad Eva, s'era scherzato… sulle sacre cerimonie, su Dio… I rimatori perugini possono ben stare nella schiera dei loro predecessori su questa linea: la loro morbosa rimeria amorosa può ben apparire come il rinnovato tentativo di sdrammatizzare e parodiare l'aulica poesia mediante la esasperata antitesi tra eleganza formale ed aristocraticamente ricercata, ed argomento scabroso e lercio" (39).

La posizione del Marti riassume le reticenze di molti altri studiosi che fino ad oggi hanno letto la poesia omoerotica in tutti i modi possibili ed immaginabili (poesia d'amicizia, poesia burlesca, imitazione dell'antichità grecoromana…) dando sempre per scontata una sua intrinseca non-sincerità". Le stesse reticenze che Francesco Gnerre ha riscontrato nella critica letteraria italiana a proposito del romanzo moderno (41) o Roberto Polce a proposito della poesia contemporanea (42) si ritrovano (ed in modo perfino più accentuato) a proposito della poesia e della letteratura antica.

Con questo non voglio affatto negare che almeno in parte Marti abbia ragione. Nelle tenzoni (comprendenti composizione di Attaviano, Gilio Lelli, Neri Moscoli, Cola di messer Alessandro, ser Cione, Trebaldino Manfredini, Cecco Nuccoli e Cecco di messer Baglioni), il carattere burlesco è immediatamente evidente.

E che in altre composizioni si possano ritrovare elementi tipici della poesia giocosa, è pure vero: ad esempio laddove Cecco Nuccoli rievoca

... el ciamprolino e 'l dado
e la taverna, colle borse ceppe (43),
viene sùbito alla mente l'Angiolieri:
Tre cose solamente mi so' in grado
le quali posso non ben ben fornire,
cio è la donna, la taverna e 'l dado (44).

Qui siamo di fronte, come ben sottolinea Marti, alla triade "taberna, lusus, puella" (taverna, gioco e donna), dei goliardi, tradotta in chiave omosessuale (il ciamprolino è un amante di sesso maschile, o prostituto).

Eppure ancora una volta il ricorso alla convenzione letteraria non è da solo sufficiente per spiegare le poesie dei rimatori perugini. Per almeno due di loro, Cecco Nuccoli (che dedica un piccolo, delicato canzoniere all'amato Trebaldino Manfredini) e Marino Ceccoli (il migliore dei poeti di questa cerchia) il tema omosessuale è un'importante fonte di ispirazione, espressa in composizioni "letterariamente garbate", per usare una volta di più le parole del Marti.

Si noti quanto sia esplicito il carattere giocoso delle tenzoni; ad esempio in quella fra Attaviano e Neri Moscoli:

Espaventacchio mostra el tristo volto:
e gli occhie de la gatta, c'hai sì guazze,
e 'l corto naso, che serba doi mazze
dentro da lei toi froge, sì m'han tolto
da quel piager, che me fieci esser stolto,
quand'io me 'nnamorai de te, che spazze
tutte le strade quando son più guazze,
poi che col guizzo tu féste raccolto (45).

(Il tuo tristo volto fa spavento: gli occhi da gatta, tanto li hai cisposi, e il naso corto, che sembra abbia due mazzi nelle narici, mi hanno smorzato quel piacere, che mi ha fatto essere stolto quando mi innamorai di te, che spazzi le strade quando sono più sudice, perché guizzando qua e là hai fatto un raccolto di spazzatura…).

Né Moscoli rinuncia a (letteralmente) "risponder per le rime":
Non me pòi spaventar, ch'io son pur vòlto
verso de te come germane a guazze:
sì ch'io non temo parole né mazze,
che da volerte piacer sia mai tolto.
E de ciò savio me tegno, non stolto,
per ciò che vizio ciascun da te spazze:
poi de belle vertù chiar'e non guazze
dentro del tuo giardin fai gran raccolto (46).

(Non mi lascio spaventare da te, perché sono ben disposto verso di te come le anatre verso l'acqua, sicché io non temo parole né mazze, che pretendano di farmi smettere di volerti piacere. E perciò mi giudico saggio, non stolto, perché tu spazzi via da te ogni vizio, e di belle virtù chiare e non turpi fai gran raccolto nel tuo giardino… [Si noti qui il doppio senso osceno: "giardino" ed "orto" nel linguaggio burlesco significano "ano", mentre nel linguaggio burchiellesco, che è palesemente anticipato dal linguaggio di questi rimatori, la "virtù" sarà il "membro virile"…]).

Eppure cosa c'è mai di "giocoso" in questi versi amorosi di Marino Ceccoli?

Amor me tra' de mente ogn'altra cosa,
fòr che de te pensar, dolce mia vita;
ed ho nel cor sì tua vertù sentita,
ch'a te mercé cridar già mai non posa.
Deh fa che tua beltà venga pietosa
ver' quel che sempre te dimand'aìta,
prima che l'alma sia del corpo uscita,
che va per te, come tu sai, pensosa.
Prego che 'l facce; or fa, anema mia,
fal, prègotene, fal; ché se tu 'l fai,
giovartene porra' quando che sia.
Ché m'hai furato 'l core e tolto m'hai
ogne mio spirto, sì ch'io non porria
già viver senza te, ch'a te me trai (47).

(Amore mi toglie da mente ogni altro pensiero che non sia rivolto a te, dolce mia vita, ed ho sentito la tua virtù nel mio cuore in modo tale che esso non smette mai di gridarti "pietà!". Deh, fa' che la tua bellezza divenga pietosa verso colui che sempre ti chiede di aiutarlo, prima che mi esca dal corpo l'anima che è, come tu sai, malinconica per causa tua. Ti prego di farlo; fallo, anima mia, fallo, ti prego, fallo; perché se tu lo farai, ti ricompenserò in qualsiasi momento vorrai. Perché m'hai rubato il cuore e mi hai tolto ogni mio spirito, cosicché io non potrei vivere senza te, che mi attiri a te).

E cosa c'è di "burlesco" in questi altri versi dello stesso autore?
Signore, io so' remasto ormai sì vénto,
ch'io non potrò soffrir più tuoi ferute;
e abbandonato m'han sì le vertute,
ch'el corpo è daglie spirte mezzo spento.
(…)
Molt'anni fa, ch'io so' piangendo gito
sotto la tua ombra, ed ora giòngo al pònto,
ch'a morte me conduce sì ferito:
per che tu m'hai con tua saetta giònto,
e già non m'è valuto esser fuggito
tanto, che dai tuoi stral non sia rigiònto (48).

(Mio signore, io sono stato talmente vinto da te, che non potrò sopportare oltre le ferite d amore che mi infliggi, e le energie mi hanno abbandonato, al punto che il mio corpo è già mezzo privo di spiriti vitali. Sono già passati molti anni dacché sono andato piangendo sotto la tua ombra, ed ora giungo al punto che così ferito mi stai conducendo a morte: perché tu mi hai colpito con la tua saetta, e a nulla mi è valso essere fuggito lontano per non essere raggiunto dai tuoi strali... ).

Anche Cecco Nuccoli, che pure è più "scanzonato" e meno "intimista" del Ceccoli. Sa trovare accenti appassionati che nulla hanno a che spartire con intenti satirici:

Ramo fiorito, el dì ch'io non ti veggio,
mio lieto cor di doglia si trafigge,
e la smarrita mente se refigge
con quel signore Amor, cui sempre chieggio.
Ond'io ne prego voi, prima ch'io peggio
istia, ch'io vegna só' la tua merigge;
se non, la morte dal corpo defigge
l'alma, che nel mio cor per voi posseggio.
Donque, vi piaccia per Dio, signor caro,
di farme grazia, prima ch'io sia morto,
ch'io non ne spero mai altro conforto… (49).

(Ramo fiorito, quando io non ti vedo, il mio lieto cuore è trafitto dal dolore, e la mia mente, smarrita, si raccoglie con Amore signore, che sempre supplico. Per cui vi prego, prima di stare peggio, di lasciarmi venire sotto la tua ombra, se no, la morte staccherà dal corpo l'anima, che solo per grazia vostra posseggo nel cuore. Dunque, vi piaccia per Dio, signore caro, di accontentarmi, prima ch'io ne muoia, perché io non spero mai altro conforto…).

Ecco perché Giorgio Petrocchi, parlando del Nuccoli, osserva: "Egli riflette così intensamente un'impressione personale, che la sua produzione poetica si potrebbe collocare meglio tra le liriche a sfondo autobiografico del primo Trecento; la supposizione di un malizioso intento burlesco per il Nuccoli come per il Ceccoli non è facile da provare" (50).

E dello stesso parere è anche Achille Tartaro: "Il linguaggio cortese si adatta senza fatica al sentimento di un amore innaturale. Potrà trattarsi di un gioco, come crede il Marti; ma non lo diremmo un gioco "burlesco", maliziosamente anticortese: non vi percepiamo, al fondo, i tratti dell'ammicco dissacratorio, i segni del riso osceno e grossolanamente allusivo che si scopre invece - come una costante autenticamente parodistica - nelle tenzoni d'argomento sodomitico. Il gioco consisterà piuttosto nella traduzione della propria esperienza negli schemi psicologici, sottili e preziosi, nell'antica cortesia; e sarà allora il gioco di una raffinata ambiguità intellettuale" (51).

Mi sono soffermato a riportare i pareri critici appena citati per due ragioni. La prima era mostrare quanto sia difficile, anche per gli studiosi padroni dei più raffinati strumenti di critica testuale, afferrare il significato sociale ed umano di simili manifestazioni letterarie, che la nostra società bolla di "scabrose".

La seconda era richiamare l'attenzione sullo "sconvolgente" fenomeno di un'intera cerchia di poeti che non solo riprende l'ormai noto tema burlesco della sodomia (accusa che rimbalza dall'uno all'altro nelle tenzoni) ma che lascia spazio ad almeno due compositori per cui l'omoerotismo è un tema di ispirazione essenziale (e la qualità poetica, oltre tutto, è decisamente superiore alla media).

Anche qui siamo di fronte non ad un "gioco da salotto", ma alla cosciente affermazione d'orgoglio per il proprio amore. Così dichiara spavaldamente il Nuccoli:

Vergogna nel venir non ho, né freno,
ben ch'altre parle o me dimostre in segno:
m'è pur maggior la pena ch'io sostegno… (52).

(Non ho vergogna né freno nel venire a voi, nonostante qualcuno sparli e mi indichi a dito: solo, è per me maggiore la pena che io sopporto (perché voi non mi guardate mai).

Ovvio che un simile atteggiamento doveva provocare reazioni sociali. Nuccoli ha il problema di quanti "parlano e lo mostrano a dito", ma anche il buon Ceccoli deve vedersela con le malelingue che propalano ciò che non si è mai molto curato di nascondere.

Di lui esiste una lettera in latino, in cui si difende dall'accusa di sodomia, come richiestogli dal destinatario, il suo amico Ugolino. Ma anche così facendo ha più l'aria di cercare di giustificare ciò che è, piuttosto che di sembrare ciò che non è.

Non mi è possibile setacciare ulteriormente il troppo copioso materiale che ci viene dai perugini. L'omosessualità è davvero pervasiva di buona parte della produzione poetica di questa cerchia.

Una lettura attenta rivela il tema omosessuale, fra le pieghe, anche in composizioni dove apparentemente non c'entra.

Così in Neri Moscoli, "quello affamato ensaziabel lupo" non ha solo "fame" di denaro, perché il frate che il poeta qualifica di "lupo"

... d'encesto non cura né de strupo,
per poder devorar ciò che li è grato:
(…)
glie cavrette e glie agnel c'han men malizia,
quei sol deletta de soddur tal frate (54).

E qui i "capretti" ed "agnelli" saranno, come è attestato più volte nella letteratura antica di tema omosessuale, specie burlesca, i "ragazzini", i "garzoni". Tanto è vero che al verso successivo Moscoli aggiunge:

Non molto cura de mangiar lor mate.
(Né si fa scrupolo di "mangiare" pure la loro madre).

Allo stesso modo salta all'occhio la tenzone fra Cione e Neri Moscoli, in cui il secondo risponde ai vanti guerreschi del primo, che si dipinge fiero in groppa al suo morello, dicendogli che non conquistatore è, ma banalmente… promiscuo e di bocca buona:

Caval non credo che sempre sia quello:
ma, in quale prima vèn, montate suso,
se non cangiate avete l'antic'uso (55).

(Il "cavallo" su cui montate non credo che sia sempre lo stesso, ma credo che voi montiate il primo che capita, se non avete perso il vostro vecchio vizio…).

Moscoli non partecipa degli ardori omoerotici di Nuccoli e Ceccoli, e canta la bellezza femminile; resta però di rilievo il fatto che anch'egli viene, per così dire, "contagiato" dall'interesse che la cerchia perugina dimostra verso i comportamenti e gli amori omosessuali. È auspicabile che ulteriori studi analizzino il come ed il perché.

Dante Alighieri (56)

Il discorso fatto fin qui non può essere completo senza un'analisi delle opinioni che l'Alighieri (1265-1321) esprime sulla sodomia nei canti XV e XVI dell'Inferno. Non ho ovviamente la pretesa di risolvere l'annosa questione, che già ha fatto scorrere fiumi d'inchiostro nel corso dei secoli, del "perché" Dante collochi alcune persone in questo girone piuttosto che altrove (57).

Mi sarà sufficiente notare la relativa indulgenza che egli dimostra verso questo peccato, e non solo nell'Inferno, dove gli usurai sono puniti con maggiore severità dei sodomiti, ma anche nel canto XVI del Purgatorio, in cui lussuriosi "secondo natura" e "contro natura" sono puniti con una pena identica.

Dante si serve in effetti di un doppio criterio per giudicare i sodomiti: da un lato, secondo un giudizio teologico, la sodomia è un peccato gravissimo, tale da far meritare l'inferno a chi lo commetta e non se ne penta in tempo.

Dall'altro, secondo un giudizio umano, il sodomita non è persona tale da perdere il rispetto e la stima che eventualmente gli si devono: è una vittima della debolezza della carne umana.

L'identità di pena comminata a sodomiti e lussuriosi "secondo natura" nel Purgatorio, è perfettamente in linea con la mentalità ufficiale (soprattutto religiosa) del medioevo. Essa non considera la lussuria omosessuale come qualitativamente diversa dall'eterosessuale. La prima si colloca per così dire su un gradino più basso, rispetto alla lussuria in generale, piuttosto che su un cammino differente.

Il sodomita è, per il pensiero religioso, un individuo talmente accecato dalla libidine da non fare più nemmeno caso al sesso della persona con cui copula. Come nota san Tommaso d'Aquino: "Il lussurioso non ha di mira la generazione, ma il piacere venereo, il quale si può ottenere anche senza gli atti da cui segue la generazione di un uomo. E questo è quanto si cerca nel vizio contro natura" (58).

Dalla presa di posizione del più grande teologo del medioevo cristiano si può capire come non sia priva di fondamento la pretesa, spesso portata avanti dagli storici anglosassoni, secondo cui nel medioevo l'atto sodomitico era visto come "atto singolo", non legato ad una tendenza "innata" dell'individuo che lo commetteva.

Questa conclusione può essere senz'altro accettata, purché se ne specifichi l'àmbito: è nel pensiero religioso cristiano (e nel pensiero laico da esso influenzato direttamente) che l'atto omosessuale viene interpretato esclusivamente come "peccato" che si innesta su una "natura umana" uguale per tutti.

Quanto tale atteggiamento fosse radicato nel pensiero cristiano, l'ha dimostrato la Chiesa cattolica, che fino a dieci anni fa rifiutava di considerare la pulsione omosessuale come altro che frutto di vizio o di tentazione del demonio. È stato solo con il Persona bumana di Paolo VI che essa ha timidamente ammesso che a volte può essere frutto di fattori "innati". Prima di allora respingeva addirittura l'idea che l'omosessualità costituisse una "malattia", perché ciò minava il dogma di una umanità tutta egualmente predisposta ai peccati di lussuria, ma diversa nella capacità di resistervi.

Lo storico che fra mille anni scrivesse la storia del comportamento omosessuale basandosi solo sui documenti ufficiali della Chiesa cattolica (come pretendono di fare per il medioevo troppi storici), ne concluderebbe che fino al 1976 in Occidente si riteneva l'omosessualità frutto di vizio o di istigazione diabolica. Ciò non sarebbe di per sé falso, ma risulterebbe fuorviante, anche perché non terrebbe conto (fra l'altro) della discrepanza spesso esistente fra le dichiarazioni ufficiali di una società, e quel che in realtà la gente pensa "ufficiosamente" (quanti cattolici oggi non usano la pillola?).

Ebbene, Dante era figlio di una società che "ufficiosamente" non considerava ancora la sodomia come un peccato gravissimo (59). Egli non collocò affatto Brunetto fra i sodomiti per "infamarlo": per lui la fama di sodomita non era sufficiente a scemare il rispetto che si deve alle persone illustri. Dante riteneva sì la sodomia - in accordo con la teologia cristiana - un peccato gravissimo agli occhi di Dio ma (e qui interviene la discrepanza fra pensiero "ufficiale" e pensiero "ufficioso") di fronte ai suoi occhi di uomo essa non era altrettanto grave.

Sarà solo dal tentativo di colmare questa dicotomia fra giudizio divino e giudizio umano (tentativo incoraggiato in parte dall'affermarsi del pensiero tomistico, e in parte dai fremiti religiosi e di moralizzazione del riformismo popolar-borghese, già notati precedentemente), che nascerà, a cavallo fra il Duecento ed il Trecento, la mentalità intollerante e persecutoria verso i sodomiti (60).

Sarà così possibile fraintendere, già a pochi anni dalla morte di Dante, il senso del suo comportamento. Nota un anonimo commentatore del XIV secolo, equivocando a proposito della gentilezza dimostrata dall'Alighieri verso i sodomiti: "Qui mostra l'Auttore l'amore et l'affezione ch'egli avea a costoro et per questo comprende alcuno, l'Auttore essere stato maculato di questo vizio, però, che sua usanza è che quante volte egli trova peccatori essere puniti d'alcuno vizio di che egli abbia sentito, se ne duole et hanne compassione, pensando similmente essere Punito elli" (61).

Un altro anonimo, che scrive fra il 1321 ed il 1337, cercherà di risolvere la "strana" indulgenza di Dante ipotizzando due categorie diverse: una di sodomiti "buoni", che sono tali "per cause di forza maggiore", l'altra di "cattivi", che sono tali per "vocazione". Naturalmente Dante si sarebbe rivolto solo ai primi: "E di questo scelerato pecchato sono due generationi di genti, l'una religiosi e maiestri in scientia, e genti che mostrano d'essare gente honesta e quando per vergogna, e quando per non potere non richieggono donna o femmina, si trovano questo altro male, e con esso si stanno. L'altra generatione di gente si sono gente scielerata e isfrenata, li quali, seguendo el loro appetito, non churano in altro. E in questo presente capitolo tormenta la gente d'habito honesto" (62).

In realtà vede molto più correttamente Francesco da Buti (1324-1406) là dove commenta al proposito: "E qui è notabile che l'uomo vizioso in alcuno peccato puote avere virtù in sé, per la quale merita onore e reverenzia; e così mostra l'autore che facesse a ser Brunetto nella vita presente onorando la virtù ch'era in lui, lasciando il vizio" (63).

Di tutti i sodomiti infatti Dante rispetta le virtù ("A costor si vuol esser cortese"): una delle rare volte in cui egli abbandona il "tu" nel rivolgersi ai dannati, per passare ad un rispettoso "voi", e proprio nei parlare con i sodomiti. Oggi per molte persone l'accusare qualcuno di essere un sodomita è incompatibile col desiderio di onorarne la memoria. Non era così comunque, per Dante, che anzi descrisse i suoi interlocutori nell'atto di chiedergli senza vergogna di parlare di loro quando fosse tornato sulla Terra, al contrario di altri peccatori che non avrebbero voluto che il loro nome e la loro colpa fossero conosciuti.

Dante perciò non ha scelto di "rivelare" il "vizio" di ser Brunetto per disonorarne la memoria. Dal suo punto di vista questo peccato è assai meno disonorevole di molti altri, per i quali oggi il Latini sarebbe invece assolto più volentieri (quanti studiosi lo avrebbero preferito assassino piuttosto che "sodomita"!) (64).

L'Alighieri non aveva però previsto che subito dopo la sua morte la sodomia sarebbe stata valutata con molto più rigore di quanto non avesse fatto lui.

Già Guiniforte dei Bargigi (1406 - dopo 1460?) non sarebbe più stato in grado di capire la scelta di Dante, ed avrebbe osservato: "Mostrando Dante molto lodare ser Brunetto lo vuol vituperare in perpetuo di tale infamia, che oscura ed ammorza ogni laude, e questo fa introducendolo tra i peccatori contra natura. E forse ironicamente parla Dante volendo essere inteso per lo contrario di ciò che dice, perocché forse avea ser Brunetto sotto apparenza di insegnargli scienza volutolo indurre in alcuna scelleratezza" (65). Guiniforte è insomma così lontano ormai dalle posizioni di Dante, da pretendere di "intenderlo per lo contrario di ciò che dice".

Ebbene, il "mistero" della presenza di Brunetto nel girone dei sodomiti è nato tutto da qui, dalla pretesa di leggere la Commedia "per lo contrario", secondo la nostra moralità, e non secondo quella del suo autore (66).

Conclusioni.

Da un saggio compilativo ed antologico come questo non credo si possano trarre conclusioni. Scopo di questo lavoro era di "aprire la strada" alla ricerca di altri, facilitare il lavoro dei futuri studiosi col raccogliere i documenti sparsi qua e là, richiamare l'attenzione sulla ricchezza del patrimonio letterario italiano che attende ancora di essere passato a setaccio, e fornire qualche rado appunto metodologico.

Forse chi scriverà fra qualche anno, forte di nuove ricerche e di nuovi documenti, potrà offrire quelle conclusioni che per ora sarebbe prematuro dare.

Per adesso, è più prudente fare punto qui.

Giovanni Dall'Orto
Milano, 13 dicembre 1985

 



L'Archivio di Storia Gay e Lesbica è a cura di Giovanni Dall'Orto

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