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LUDOVICO ARIOSTO
(1474-1533), Satire [1517-1525]
SATIRA VI
[in altre edizioni: VII]
A MESSER PIETRO BEMBO
Testo inviato da Giovanni Dall'Orto
Il testo è quello messo online dal Progetto Manuzio, a sua volta tratto da: Satire di Ludovico Ariosto, Biblioteca Universale Rizzoli, Rizzoli, Milano 1990.
Sono in neretto i versi in cui si parla di omosessualità: i versi 25-33 lamentano la fama di sodomiti che hanno gli umanisti fra la gente comune, che ride se sente che uno scrive poesie e dice che è pericoloso dormire con lui voltandogli la schiena.
ed anche i versi 106-111 che lamenta che anche i vecchi siano viziosi, come Placidiano che da "cavaliere" (attivo) è tornato "ragazzo" (passivo), per non parlare di Andronico che a settant'anni non si leva di dosso quel vizio.
Nota: la mia trascrizione non è dal manoscritto originale ma dalla fotocopia di un'opera a stampa regalatami priva di indicazioni bibliografiche...
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LUDOVICO ARIOSTO (1474-1533),
Satire [1517-1525]
SATIRA VI
[in altre edizioni: VII]
A MESSER PIETRO BEMBO
- Bembo, io vorrei, come è il commun disio
- de' solliciti padri, veder l'arti
- che essaltan l'uom, tutte in Virginio mio;
- e perché di esse in te le miglior parti
- veggio, e le più, di questo alcuna cura
- per l'amicizia nostra vorrei darti.
- Non creder però ch'esca di misura
- la mia domanda, ch'io voglia tu facci
- l'ufficio di Demetrio o di Musura
- (non si dànno a' par tuoi simili impacci),
- ma sol che pensi e che discorri teco,
- e saper dagli amici anco procacci
- s'in Padova o in Vinegia è alcun buon greco,
- buono in scïenzia e più in costumi, il quale
- voglia insegnarli, e in casa tener seco.
- Dottrina abbia e bontà, ma principale
- sia la bontà: che, non vi essendo questa,
- né molto quella alla mia estima vale.
- So ben che la dottrina fia più presta
- a lasciarsi trovar che la bontade:
- sì mal l'una ne l'altra oggi s'inesta.
- O nostra male aventurosa etade,
- che le virtudi che non abbian misti
- vizii nefandi si ritrovin rade!
- Senza quel vizio son pochi umanisti
- che fe' a Dio forza, non che persüase,
- di far Gomorra e i suoi vicini tristi:
- mandò fuoco da ciel, ch'uomini e case
- tutto consumpse; et ebbe tempo a pena
- Lot a fugir, ma la moglier rimase.
- Ride il volgo, se sente un ch'abbia vena
- di poesia, e poi dice: "È gran periglio
- a dormir seco e volgierli la schiena".
- Et oltra questa nota, il peccadiglio
- di Spagna gli dànno anco, che non creda
- in unità del Spirto il Padre e il Figlio.
- Non che contempli come l'un proceda
- da l'altro o nasca, e come il debol senso
- ch'uno e tre possano essere conceda;
- ma gli par che non dando il suo consenso
- a quel che approvan gli altri, mostri ingegno
- da penetrar più su che 'l cielo immenso.
- Se Nicoletto o fra Martin fan segno
- d'infedele o d'eretico, ne accuso
- il saper troppo, e men con lor mi sdegno:
- perché, salendo lo intelletto in suso
- per veder Dio, non de' parerci strano
- se talor cade giù cieco e confuso.
- Ma tu, del qual lo studio è tutto umano
- e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,
- il mormorar d'un rio che righi il piano,
- cantar antiqui gesti e render molli
- con prieghi animi duri, e far sovente
- di false lode i principi satolli,
- dimmi, che truovi tu che sì la mente
- ti debbia aviluppar, sì tòrre il senno,
- che tu non creda come l'altra gente?
- Il nome che di apostolo ti denno
- o d'alcun minor santo i padri, quando
- cristiano d'acqua, e non d'altro ti fenno,
- in Cosmico, in Pomponio vai mutando;
- altri Pietro in Pïerio, altri Giovanni
- in Iano o in Iovïan va riconciando;
- quasi che 'l nome i buon giudici inganni,
- e che quel meglio t'abbia a far poeta
- che non farà lo studio de molti anni.
- Esser tali dovean quelli che vieta
- che sian ne la republica Platone,
- da lui con sì santi ordini discreta;
- ma non fu tal già Febo, né Anfïone,
- né gli altri che trovaro i primi versi,
- che col buon stile, e più con l'opre buone,
- persuasero gli uomini a doversi
- ridurre insieme, e abandonar le giande
- che per le selve li traean dispersi;
- e fér che i più robusti, la cui grande
- forza era usata alli minori tòrre
- or mogli, or gregge et or miglior vivande,
- si lasciaro alle leggi sottoporre,
- e cominciar, versando aratri e glebe,
- del sudor lor più giusti frutti accòrre.
- Indi i scrittor féro all'indotta plebe
- creder ch'al suon de le soavi cetre
- l'un Troia e l'altro edificasse Tebe;
- e avesson fatto scendere le petre
- dagli alti monti, et Orfeo tratto al canto
- tigri e leon da le spelonche tetre.
- Non è, s'io mi coruccio e grido alquanto
- più con la nostra che con l'altre scole,
- ch'in tutte l'altre io non veggio altretanto,
- d'altra correzïon che di parole
- degne; né del fallir de' suoi scolari,
- non pur Quintilïano è che si duole.
- Ma se degli altri io vuo' scoprir gli altari,
- tu dirai che rubato e del Pistoia
- e di Petro Aretino abbia gli armari.
- Degli altri studi onor e biasmo, noia
- mi dà e piacer, ma non come s'io sento
- che viva il pregio de' poeti e moia.
- Altrimenti mi dolgo e mi lamento
- di sentir riputar senza cervello
- il biondo Aonio e più leggier che 'l vento,
- che se del dottoraccio suo fratello
- odo il medesmo, al quale un altro pazzo
- donò l'onor del manto e del capello.
- più mi duol ch'in vecchiezza voglia il guazzo
- Placidïan, che gioven dar soleva,
- e che di cavallier torni ragazzo,
- che di sentir che simil fango aggreva
- il mio vicino Andronico, e vi giace
- già settant'anni, e ancor non se ne lieva.
- Se mi è detto che Pandaro è rapace,
- Curio goloso, Pontico idolatro,
- Flavio biastemator, via più mi spiace
- che se per poco prezzo odo Cusatro
- dar le sentenzie false, o che col tòsco
- mastro Battista mescole il veratro;
- o che quel mastro in teologia ch'al tósco
- mesce il parlar fachin si tien la scroffa,
- e già n'ha dui bastardi ch'io conosco;
- né per saziar la gola sua gaglioffa
- perdona a spesa, e lascia che di fame
- langue la madre e va mendica e goffa;
- poi lo sento gridar, che par che chiame
- le guardie, ch'io digiuni e ch'io sia casto,
- e che quanto me stesso il prossimo ame.
- Ma gli error di questi altri così il basto
- di miei pensier non gravano, che molto
- lasci il dormir o perder voglia un pasto.
- Ma per tornar là donde io mi son tolto,
- vorrei che a mio figliuolo un precettore
- trovassi meno in questi vizii involto,
- che ne la propria lingua de l'autore
- gli insegnasse d'intender ciò che Ulisse
- sofferse a Troia e poi nel lungo errore,
- ciò che Apollonio e Euripide già scrisse,
- Sofocle, e quel che da le morse fronde
- par che poeta in Ascra divenisse,
- e quel che Galatea chiamò da l'onde,
- Pindaro, e gli altri a cui le Muse argive
- donar sì dolci lingue e sì faconde.
- Già per me sa ciò che Virgilio scrive,
- Terenzio, Ovidio, Orazio, e le plautine
- scene ha vedute, guaste e a pena vive.
- Omai può senza me per le latine
- vestigie andar a Delfi, e de la strada
- che monta in Elicon vedere il fine;
- ma perché meglio e più sicur vi vada,
- desidero ch'egli abbia buone scorte,
- che sien de la medesima contrada.
- Non vuol la mia pigrizia o la mia sorte
- che del tempio di Apollo io gli apra in Delo,
- come gli fei nel Palatin, le porte.
- Ahi lasso! quando ebbi al pegàseo melo
- l'età disposta, che le fresche guancie
- non si vedeano ancor fiorir d'un pelo,
- mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
- non che con sproni, a volger testi e chiose,
- e me occupò cinque anni in quelle ciancie.
- Ma poi che vide poco fruttüose
- l'opere, e il tempo invan gittarsi, dopo
- molto contrasto in libertà mi pose.
- Passar venti anni io mi truovavo, et uopo
- aver di pedagogo: che a fatica
- inteso avrei quel che tradusse Esopo.
- Fortuna molto mi fu allora amica
- che mi offerse Gregorio da Spoleti,
- che ragion vuol ch'io sempre benedica.
- Tenea d'ambe le lingue i bei secreti,
- e potea giudicar se meglior tuba
- ebbe il figliuol di Venere o di Teti.
- Ma allora non curai saper di Ecuba
- la rabbiosa ira, e come Ulisse a Reso
- la vita a un tempo e li cavalli ruba;
- ch'io volea intender prima in che avea offeso
- Enea Giunon, che 'l bel regno da lei
- gli dovesse d'Esperia esser conteso;
- che 'l saper ne la lingua de li Achei
- non mi reputo onor, s'io non intendo
- prima il parlar de li latini miei.
- Mentre l'uno acquistando, e diferrendo
- vo l'altro, l'Occasion fuggì sdegnata,
- poi che mi porge il crine, et io nol prendo
- Mi fu Gregorio da la sfortunata
- Duchessa tolto, e dato a quel figliuolo
- a chi avea il zio la signoria levata.
- Di che vendetta, ma con suo gran duolo,
- vide ella tosto, ahimè!, perché del fallo
- quel che peccò non fu punito solo.
- Col zio il nipote (e fu poco intervallo)
- del regno e de l'aver spogliati in tutto,
- prigioni andar sotto il dominio gallo.
- Gregorio a' prieghi d'Isabella indutto
- fu a seguir il discepolo, là dove
- lasciò, morendo, i cari amici in lutto.
- Questa iattura e l'altre cose nove
- che in quei tempi successeno, mi féro
- scordar Talia et Euterpe e tutte nove.
- Mi more il padre, e da Maria il pensiero
- drieto a Marta bisogna ch'io rivolga,
- ch'io muti in squarci et in vacchette Omero;
- truovi marito e modo che si tolga
- di casa una sorella, e un'altra appresso,
- e che l'eredità non se ne dolga;
- coi piccioli fratelli, ai quai successo
- ero in luogo di padre, far l'uffizio
- che debito e pietà avea commesso;
- a chi studio, a chi corte, a chi essercizio
- altro proporre, e procurar non pieghi
- da le virtudi il molle animo al vizio.
- Né questo è sol che alli miei studii nieghi
- di più avanzarsi, e basti che la barca,
- perché non torni a dietro, al lito leghi;
- ma si truovò di tanti affanni carca
- allor la mente mia, ch'ebbi desire
- che la cocca al mio fil fésse la Parca.
- Quel, la cui dolce compagnia nutrire
- solea i miei studi, e stimulando inanzi
- con dolce emulazion solea far ire,
- il mio parente, amico, fratello anzi
- l'anima mia, non mezza non, ma intiera,
- senza ch'alcuna parte me ne avanzi,
- morì, Pandolfo, poco dopo: ah fera
- scossa ch'avesti allor, stirpe Arïosta,
- di ch'egli un ramo, e forse il più bello, era!
- In tanto onor, vivendo, t'avria posta,
- ch'altra a quel né in Ferrara né in Bologna,
- onde hai l'antiqua origine, s'accosta.
- Se la virtù dà onor, come vergogna
- il vizio, si potea sperar da lui
- tutto l'onor che buono animo agogna.
- Alla morte del padre e de li dui
- sì cari amici, aggiunge che dal giogo
- del Cardinal da Este oppresso fui;
- che da la creazione insino al rogo
- di Iulio, e poi sette anni anco di Leo,
- non mi lasciò fermar molto in un luogo,
- e di poeta cavallar mi feo:
- vedi se per le balze e per le fosse
- io potevo imparar greco o caldeo!
- Mi maraviglio che di me non fosse
- come di quel filosofo, a chi il sasso
- ciò che inanzi sapea dal capo scosse.
- Bembo, io ti prego insomma, pria che 'l passo
- chiuso gli sia, che al mio Virginio porga
- la tua prudenza guida, che in Parnasso,
- ove per tempo ir non seppi io, lo scorga.
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