GABRIELE D'ANNUNZIO (1863-1938).
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GABRIELE D'ANNUNZIO (1863-1938).La morte del Duca d'OfenaQuando giunse di lontano il primo clamor confuso della ribellione, Don Filippo Cassàura aprì subitamente le palpebre che per solito gli pesavano su gli occhi, infiammate agli orli e arrovesciate come quelle de' piloti che navigano per mari ventosi. - Hai sentito? - chiese al Mazzagrogna che gli stava da presso. E il tremito della voce tradiva lo sbigottimento interiore. Rispose il maggiordomo, sorridendo: - Non abbiate paura, Eccellenza. Oggi è San Pietro. Cantano i mietitori. Il vecchio stette un poco in ascolto, poggiato sul gomito, con lo sguardo ai balconi. Le cortine ondeggiavano ai soffi caldi del libeccio. Le rondini a stormi passavano e ripassavano, rapide come frecce, nell'aria ardentissima. Tutti i tetti delle case sottostanti fiammeggiavano, quali rossastri, quali grigi. Oltre i tetti si distendeva la campagna immensa ed opulenta, quasi tutta d'oro in tempo di mietitura. Di nuovo chiese il vecchio: - Ma, Giovanni, hai sentito? Giungevano, infatti, clamori che non parevano di gioia. Il vento, rafforzandoli a intervalli e spegnendoli o mescendoli al suo fischio, li rendeva più singolari. - Non ci badate, Eccellenza - rispose il Mazzagrogna. - Gli orecchi v'ingannano. State quieto. Ed egli si levò per andare verso uno dei balconi. Era un uomo tarchiato, con le gambe in arco, con le mani enormi, coperte di peli sul dorso, bestiali. Aveva gli occhi un poco obliqui, biancastri come quelli degli albini, tutta la faccia sparsa di lentiggini, pochi capelli rossi su le tempie, e l'occipite occupato da certe escrescenze dure e scure in forma di castagne. Rimase in piedi alquanto, fra le due cortine che si gonfiavano come due vele, a investigare il piano sottoposto. Un alto polverìo levavasi dalla strada della Fara, come per passaggio di greggi numerose; e i folti nugoli, gonfiati dal vento, crescevano in forma di trombe. Di tratto in tratto, anche, i nugoli balenavano come se chiudessero gente armata. - Ebbene? - chiese Don Filippo, inquieto. - Nulla - rispose il Mazzagrogna; ma aveva le sopracciglia corrugate profondamente. Di nuovo, il soffio impetuoso portò un tumulto di grida lontane. Una cortina, sforzata dall'urto, si mise a sbattere e a garrire nell'aria come un gonfalone spiegato. Una porta si chiuse d'improvviso, con violenza e con fragore. I vetri ne tremarono. Le carte, accumulate sopra una tavola, si sparpagliarono per tutta la stanza. - Chiudi! Chiudi! - gridò il vecchio, con un moto di terrore. - Mio figlio dov'è? Egli ansava, sul letto, affogato dalla pinguedine, incapace di levarsi poiché aveva tutta la inferior parte del corpo impedita dalla paralisìa. Un continuo tremor paralitico gli agitava i muscoli del collo, i gomiti, le ginocchia. Le sue mani posavano sul lenzuolo, contorte e nodose come le radiche dei vecchi olivi. Un sudore abondante gli stillava dalla fronte e dal cranio calvo, rigandogli la larga faccia che era d'un color roseo disfatto, sottilissimamente venato di vermiglio come la milza dei buoi. - Diavolo! - mormorò fra i denti il Mazzagrogna, mentre chiudeva le imposte a viva forza. - Fanno davvero? Ora si scorgeva su la strada della Fara, alle prime case, una moltitudine d'uomini agitata e ondeggiante, come un rigurgito di flutti, che dava indizio di un'altra maggior moltitudine non visibile, nascosta dalla linea dei tetti e dalle querci di San Pio. La legione ausiliaria delle campagne veniva dunque ad ingrossar la ribellione. A poco a poco la folla diminuiva, internandosi nelle vie del paese e scomparendo come un popolo di formiche nei labirinti d'un formicaio. Le grida, soffocate dalle mura o ripercosse, giungevano ora come un rombo continuo, indistinte. A volte mancavano; e allora si udiva il grande stormire degli elci dinanzi al palazzo che pareva più solo. - Mio figlio dov'è? - chiese di nuovo il vecchio, con una voce che lo sbigottimento rendeva più stridula. - Chiamalo! Lo voglio vedere. Tremava forte, sul letto, non soltanto perché egli era paralitico, ma perché aveva paura. Ai primi moti sediziosi del giorno innanzi, agli urli d'un centinaio di giovinastri venuti a schiamazzare sotto i balconi contro la più recente angheria del duca d'Ofena, egli era stato preso da una così pazza paura che aveva pianto come una femminetta ed aveva passata la notte invocando i santi del Paradiso. Il pensiero della morte o del pericolo dava un indicibile terrore a quel vecchio paralitico, già semispento, in cui gli ultimi guizzi della vita eran si dolorosi. Egli non voleva morire. - Luigi! Luigi! - si mise a gridare, nell'ambascia, chiamando il figliuolo. Tutto il palazzo era pieno dell'acuto tintinnìo de' vetri all'urto del vento. Di tratto in tratto si udiva il rimbombo d'un uscio sbattuto, o suono di passi precipitati e di voci brevi. - Luigi!
II Il duca accorse. Egli era un poco pallido e concitato, se bene cercasse di dominarsi. Alto di statura e robusto, aveva la barba ancor tutta nera su le mascelle assai grosse; la bocca tumida e imperiosa, piena d'un soffio veemente; gli occhi torbidi e voraci; il naso grande, palpitante, sparso di rossore. - Ebbene? - chiese Don Filippo, ansando con tal rantolo che pareva dovesse soffocarlo. - Non temete, padre; ci sono io - rispose il duca, appressandosi al letto, cercando di sorridere. Il Mazzagrogna stava in piedi, dinanzi a uno dei balconi, guardando di fuori, intento. Non giungevano più grida; non si vedeva più alcuno. Il sole declinava dal cielo puro, simile a un cerchio roseo di fiamma, che più s'ingrandiva e più s'accendeva nel raggiungere le cime dei colli. Tutta la campagna pareva ardere; e pareva che il garbino fosse l'alito dell'incendio. Il primo quarto della luna saliva di tra le macchie di Lisci. Poggio Rivelli, Ricciano, Rocca di Forca, in lontananza, mandavano lampi dai vetri delle finestre e a tratti suono di campane. Qualche fuoco incominciava a brillare qua e là. Il calore toglieva il respiro. - Questo - disse il duca d'Ofena con quella sua voce rauca e dura - ci viene dagli Scioli. Ma... E fece un gran gesto di minaccia. Poi s'accostò al Mazzagrogna. Egli era inquieto per Carletto Grua che non si vedeva ancóra. Passeggiò in lungo e in largo nella stanza, con un passo pesante. Staccò da una panoplia due lunghe pistole d'arcione e le esaminò attentamente. Il padre seguiva ogni atto di lui con occhi dilatati; ansava come un giumento in agonia; di tratto in tratto scoteva con le mani deformi il lenzuolo, per aver refrigerio. Domandò due o tre volte al Mazzagrogna: - Che si vede? D'improvviso il Mazzagrogna esclamò: - Ecco Carletto che vien su correndo, con Gennaro. Si udirono, in fatti, colpi furiosi alla porta grande. Poco dopo, Carletto e il servo entrarono nella stanza, pallidi, sbigottiti, macchiati di sangue, coperti di polvere. Il duca, vedendo Carletto, gettò un grido. Lo prese fra le braccia, si mise a tastarlo in tutto il corpo per trovare la ferita. - Che t'hanno fatto? Di', che t'hanno fatto? Il giovine piangeva, come una donna. - Qui - disse fra i singhiozzi. Abbassò la testa e mostrò su la nuca alcune ciocche di capelli attaccate insieme dal sangue rappreso. Il duca mise le dita fra i capelli delicatamente, per iscoprir la ferita. Egli amava d'un tristo amore Carletto Grua; ed aveva per lui le cure d'un amante. - Ti fa dolore? - gli chiese. Il giovine singhiozzò più forte. Egli era esile come una fanciulla; aveva un volto femineo, a pena a pena ombrato d'una lanugine bionda; i capelli alquanto lunghi, bellissima la bocca, e la voce acuta come quella degli evirati. Era un orfano, figliuolo d'un confettiere di Benevento. Faceva da valletto al duca. - Ora verranno! - disse, con un tremito per tutta la persona, volgendo gli occhi pieni di lacrime al balcone d'onde ora di nuovo giungevano i clamori, più alti e più terribili. Il servo, che aveva una ferita profonda su la spalla destra e tutto il braccio intriso di sangue fino al gomito, raccontava balbettando come ambedue fossero stati rincorsi dalla folla inferocita; quando il Mazzagrogna, ch'era rimasto sempre a spiare, gridò: - Eccoli! Vengono al palazzo. Sono armati. Don Luigi, lasciando Carletto corse a vedere.
III La moltitudine, in fatti, irrompeva su per l'ampia salita, urlando e scotendo nell'aria armi ed arnesi, con una tal furia concorde che non pareva un adunamento di singoli uomini ma la coerente massa d'una qualche cieca materia sospinta da una irresistibile forza. In pochi minuti fu sotto al palazzo, si allungò intorno come un gran serpente di molte spire, e chiuse in un denso cerchio tutto l'edifizio. Taluni dei ribelli portavano alti fasci di canne accesi, come fiaccole, che gittavano su i volti una luce mobile e rossastra, schizzavano faville e schegge ardenti, mettevano un crepitìo sonoro. Altri, in un gruppo compatto, sostenevano un'antenna, alla cui cima penzolava un cadavere umano. Minacciavano la morte coi gesti e con le voci. Tra le contumelie ripetevano un nome: - Cassàura! Cassàura! Il duca d'Ofena si morse le mani, quando riconobbe in cima all'antenna il corpo mutilato di Vincenzio Murro, del messo ch'egli aveva spedito nella notte a chieder soccorso di gente d'arme. Additò l'impiccato a Mazzagrogna, il quale disse a bassa voce: - È finita! Ma l'udì Don Filippo, e cominciò a fare un lagno così accorante che tutti si sentirono stringere il cuore e mancare gli spiriti. I servi si accalcavano su le soglie, smorti in faccia, tenuti dalla viltà. Alcuni lacrimavano, altri invocavano un santo, altri pensavano al tradimento. - Se, consegnando il padrone al popolo, avessero potuto aver salva la vita? - Cinque o sei, meno pusillanimi, tenevano perciò consiglio e si eccitavano a vicenda. - Al balcone! Al balcone! - gridava il popolo, tempestando. - Al balcone! Ora il duca d'Ofena parlava sommesso col Mazzagrogna, in disparte. Volgendosi a Don Filippo, disse: - Mettetevi nella sedia, padre. Sarà meglio. Ci fu tra i servi un leggero mormorìo. Due si fecero innanzi per aiutare il paralitico a discendere dal letto. Altri due accostarono la sedia che scorreva su piccole ruote. L'operazione fu penosa. Il vecchio corpulento ansava e si lamentava forte, premendo con le braccia il collo dei servi che lo sostenevano. Egli era tutto grondante; e la stanza, essendo chiuse le imposte, era ormai piena dell'insoffribile odore. Com'egli fu nella sedia, i suoi piedi con un moto ritmico presero a percuotere il pavimento. Il gran ventre tremolava floscio su le ginocchia, simile a un otre mezzo vuoto. Allora il duca disse al Mazzagrogna: - Giovanni, a te! E quegli, con un gesto risoluto, aprì le imposte ed uscì sul balcone.
IV Un urlo immenso l'accolse. Cinque, dieci, venti fasci di canne ardenti vennero lì sotto a radunarsi. Il chiarore illuminava i volti animati dalla bramosìa della strage, l'acciaro degli schioppi, i ferri delle scuri. I portatori di fiaccole avevano tutta la faccia cospersa di farina, per difendersi dalle faville; e tra quel bianco i loro occhi sanguigni brillavano singolarmente. Il fumo nero saliva nell'aria, disperdendosi rapido. Tutte le fiamme si allungavano da una banda, spinte dal vento, sibilanti, come capellature infernali. Le canne più sottili e più secche si accendevano, si torcevano, rosseggiavano, si spezzavano, scoppiettavano come razzi, in un attimo. Ed era una vista allegra. - Mazzagrogna! Mazzagrogna! A morte il ruffiano! A morte il guercio! - gridavano tutti, accalcandosi per iscagliar più da vicino l'insulto. Il Mazzagrogna stese una mano, come per sedare i clamori; raccolse tutta la potenza vocale; e incominciò col nome del Re, quasi promulgasse una legge, per incutere al popolo il rispetto. - In nome di S. M. Ferdinando II, per la grazia di Dio, Re delle Due Sicilie, di Gerusalemme... - A morte il ladro! Due, tre schioppettate risonarono fra le grida; e l'arringatore, colpito al petto e alla fronte, vacillò, agitò in alto le mani e cadde in avanti. Nel cadere, la testa entrò fra l'un ferro e l'altro della ringhiera e penzolò di fuori come una zucca. Il sangue gocciolava sul terreno sottostante. Il caso rallegrò il popolo. Lo schiamazzo saliva alle stelle. Allora i portatori dell'antenna con l'impiccato vennero sotto il balcone e accostarono Vincenzio Murro al maggiordomo. Mentre l'antenna oscillava nell'aria, il popolo stava intento al congiungimento dei due morti, quasi ammutolito. Un poeta improvviso, alludendo all'occhio albino del Mazzagrogna e a quello cisposo del messo, gittò a squarciagola un sospetto: - Affàccet' a 'ssa fenestre, uòcchie fritte, Ca t'è mmenut' a ccandà 'lu scazzàte. Un vasto scroscio di risa accolse lo scherno del poeta; e le risa si propagarono di bocca in bocca, come un tuono d'acque cadenti giù pe' sassi d'una china. Un poeta rivale gridò: - Vide che ssòrt' ha da 'vè 'ssu cecàte! S'affranghe de chiude' l'uòcchie quando se mòre. Le risa si rinnovellarono. Un terzo gridò: - O faccia de cecòria mmàle còtte! Tenète lu chelòre de la morte! Altri distici volarono al Mazzagrogna. Una gioia feroce aveva invaso gli animi. La vista e l'odore del sangue inebriavano i più vicini. Tommaso di Beffi e Rocco Furci vennero a contesa di destrezza nel colpire con una sassata il cranio penzoloni dell'ucciso ancor caldo. A ogni colpo il cranio si moveva e dava sangue. La pietra di Rocco Furci alla fine colpì nel mezzo, levando un suono secco. Gli spettatori applaudirono. Ma erano sazii omai del Mazzagrogna. Di nuovo sorse il grido: - Cassàura! Cassàura! Il duca! A morte! Fabrizio e Ferdinandino Scioli s'insinuavano tra la folla ed istigavano i facinorosi. Una terribile sassaiuola si levò contro le finestre del palazzo, fitta come una grandine, mista di schioppettate. I vetri cadevano addosso agli assalitori. Le pietre rimbalzavano. Rimasero feriti non pochi dei circostanti. Terminati i sassi, consumato il piombo, Ferdinandino Scioli gridò: - A terra le porte! E il grido, ripetuto da tante bocche, tolse al duca d'Ofena ogni speranza di salvezza.
V Nessuno aveva osato di richiudere il balcone dov'era caduto il Mazzagrogna. Il cadavere giaceva in un'attitudine scomposta. Poiché i ribelli, per essere liberi, avevan lasciata l'antenna contro la ringhiera, anche il corpo sanguinoso del messo, a cui qualche membro era stato reciso con la scure, scorgevasi a traverso le cortine gonfiate dal vento. La sera era profonda. Le stelle riscintillavano senza fine. Qualche stoppia bruciava in lontananza. Udendo i colpi contro le porte, il duca d'Ofena volle ancóra tentare una prova. Don Filippo, istupidito dal terrore, teneva gli occhi chiusi; non parlava più. Carletto Grua, con la testa fasciata, si rannicchiava tutto in un angolo, battendo i denti nella febbre e nella paura, seguendo con i poveri occhi fuori dell'orbita ogni passo, ogni gesto, ogni moto del suo signore. I servi erano rifugiati quasi tutti nelle soffitte. Pochi rimanevano nelle stanze contigue. Don Luigi li radunò, li rianimò; li armò di pistole o di fucile; quindi a ciascuno assegnò un posto dietro il davanzale d'una finestra o tra le persiane d'un balcone. Ciascuno doveva tirare su la folla, con la maggior possibile celerita di colpi, in silenzio, senza esporsi. - Avanti! Il fuoco incominciò. Don Luigi sperava nel pànico. Egli stesso caricava e scaricava le sue lunghe pistole con un meraviglioso vigore, senza stancarsi. Come la moltitudine era densa, nessun colpo falliva. Le grida, che si levavano ad ogni scarica, eccitavano i servi e n'aumentavano l'ardore. Già lo scompiglio invadeva gli ammutinati. Molti fuggivano, lasciando a terra i feriti. Allora dal servidorame partì un urlo di vittoria: - Viva il duca d'Ofena! Quelli uomini vili ora s'inbaldanzivano, vedendo le spalle del nemico. Non rimanevano più nascosti, né più tiravano alla cieca, ma si erano alzati in piedi, fieramente, e cercavano di colpire nel segno. Ed ogni volta che vedevan cadere uno, gittavano l'urlo: - Viva il duca! In poco, il palazzo fu libero d'assedio. D'intorno i feriti si lamentavano. I residui delle canne, che ancóra ardevano al suolo, gittavan su' corpi bagliori incerti, suscitavan riflessi da qualche pozza di sangue, o stridevano spegnendosi. Il vento era cresciuto; ed investiva gli elci con alto stormire. I latrati dei cani si rispondevano per tutta la valle. Inebriati dalla vittoria, grondanti per la fatica, i servi discesero a rifocillarsi. Tutti erano incolumi. Bevevano senza misura, e facevano gazzarra. Alcuni proclamavano i nomi di quelli che essi avevan colpito, e ne descrivevano il modo della caduta, buffonescamente. I bracchieri desumevano le similitudini dalla selvaggina. Un cuciniere si vantò d'aver ucciso il terribile Rocco Furci. Alimentate dal vino, le millanterie si moltiplicavano.
VI Ora, mentre il duca d'Ofena, sicuro d'aver per quella notte almeno scongiurato ogni pericolo, era solo intento a custodire il piagnucolante Carletto, improvvisi bagliori si ripercossero in uno specchio e nuovi clamori si levarono tra il fischiar del libeccio, sotto il palazzo. Al tempo medesimo apparvero quattro o cinque servi, che il fumo aveva quasi soffocati mentre dormivano ubriachi nelle stanze basse. Essi non avevano ancóra riacquistati gli spiriti; barcollavano senza poter parlare poiché si sentivan la lingua torpida. Altri sopraggiunsero. - Il fuoco! Il fuoco! Tremavano gli uni addossati agli altri, come una greggia. La viltà nativa li occupava novamente. Avevano tutti i sensi ottusi, come in un sogno. Non sapevano quel che dovevano fare. Né ancóra la perfetta consapevolezza del pericolo li stimolava a cercare uno scampo. Sorpreso, il duca dapprima restò perplesso. Ma Carletto Grua, vedendo entrare il fumo e udendo quel singolare ruggito che fanno le fiamme nel nutrirsi, si mise a strillare così acutamente e a far gesti così forsennati che Don Filippo si destò dal grave sopore in cui era caduto e vide la morte. La morte era inevitabile. Il fuoco, sotto il costante soffio del vento, propagavasi con una stupenda celerità per tutta la vecchia ossatura dell'edifizio, divorando ogni cosa, suscitando da ogni cosa vampe mobili, fluide, canore. Le vampe correvano lievi su le pareti, lambivano le tappezzerie, esitavano un istante a fior del tessuto, si colorivano di tinte mutevoli e vaghe, penetravano nella trama con mille lingue sottilissime e vibranti, parevano infondere per un attimo nelle figure murali uno spirito, accendere per un attimo su la bocca delle ninfe e delle iddie un riso non mai veduto, muovere per un attimo le loro attitudini e i loro gesti immobili. Passavan oltre, in fuga sempre più luminosa; si avvolgevano alle suppellettili di legno, conservando fino all'ultimo la loro forma, così da farle apparire tutte materiate di piropi che d'un tratto si disgregavano e s'incenerivano come per incanti. Le voci delle vampe erano innumerevoli; formavano un vasto coro, una profonda armonia, come d'una selva dai milioni di foglie, come d'un organo dai milioni di canne. Già appariva ad intervalli, nelle aperture fragorose, il cielo puro con le sue corone di stelle. Omai tutto il palazzo era in potere del fuoco. - Salvami! Salvami! - gridò il vecchio, tentando invano di sorgere, sentendo già sotto di sé sprofondare il pavimento, sentendosi accecare dall'implacabile rossore. - Salvami! Con uno sforzo supremo giunse a levarsi. E si mise a correre, col tronco inclinato innanzi, saltellando a piccoli passi incalzanti, come spinto da un irresistibile impulso progressivo, agitando le mani informi, finché cadde fulminato, già preda del fuoco, sgonfiandosi e rappigliandosi come una vescica. Ora di tratto in tratto le grida del popolo aumentavano, e salivan più alto dell'incendio. I servi, pazzi di terrore e di dolore, mezzo riarsi, si precipitavano dalle finestre e venivano a cadere morti sul suolo; o mal vivi, ed eran finiti. Ad ogni caduta rispondeva un maggior clamore. - Il duca! Il duca! - gridavano i barbari, malcontenti, perché volevano veder precipitare il tirannello col suo bagascione. - Eccolo! Eccolo! È lui! - Giù! Giù! Ti vogliamo! - Muori, cane! Muori! Muori! Muori! Su la porta grande, proprio in cospetto del popolo, apparve Don Luigi con le vesti in fiamme portando su le spalle il corpo inerte di Carletto Grua. Egli aveva tutto il volto bruciato, irriconoscibile; non aveva quasi più capelli, ne barba. Ma camminava a traverso l'incendio, impavido, non anche morto, poiché valeva a sostener gli spiriti quello stesso atroce dolore. Da prima il popolo ammutolì. Poi di nuovo proruppe in urli e in gesti, aspettando con ferocia che la gran vittima venisse a spirargli dinanzi. - Qui, qui, cane! Ti vogliamo veder morire! Don Luigi udì, a traverso le fiamme, l'ultime ingiurie. Raccolse tutta l'anima in un atto di scherno indescrivibile. Quindi voltò le spalle; e disparve per sempre dove più ruggiva il fuoco. |
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L'Archivio di Storia Gay e Lesbica è a cura di Giovanni Dall'Orto Tutti gli articoli qui pubblicati appaiono per gentile concessione degli autori. |
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